Viaggio attraverso le stazioni invernali virtuose

2 aprile 2016

Dieci anni fa la rivista Sciare mi chiese di preparare una serie di articoli su quelle piccole stazioni invernali delle Alpi che, anziché insistere sullo sci di massa scimmiottando le grandi (un vero suicidio!), erano capaci di investire su uno o più dei loro “punti di forza”: l’ambiente naturale, la predisposizione allo sci fuori pista e al freeride, la cultura tradizionale, i prodotti tipici dell’agricoltura di montagna e dell’artigianato, l’accoglienza semplice e genuina. Il tutto attraverso proposte concrete, non solo slogan pubblicitari.
L’ispirazione a questa ricerca, che mi permise allora un entusiasmante vagabondaggio sciatorio, era frutto della lettura del saggio di Enrico Camanni “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri 2002, in cui l’autore spiega (pag.120) i possibili vantaggi delle piccole stazioni rispetto alle grandi nel far fronte all’evidente crisi dello sci di massa. Sempre beninteso che sappiano far leva sulle loro qualità intrinseche e a ottimizzare l’utilizzo di strutture e impianti meno impattanti, meno costosi (come investimento e come costo d’esercizio) e più flessibili per quanto riguarda il periodo di funzionamento. Ossia gli skilift, oggi sciaguratamente passati di moda.
Vale la pena di precisare che non è essenziale stabilire dei parametri quantitativi per definire cosa si intende per piccole stazioni. Ciò che conta è soprattutto l’atmosfera che le contraddistingue, così diversa rispetto a quella delle grandi, unita all’originalità delle loro proposte.
Rileggendo quegli articoli appassionati di dieci anni or sono mi sono chiesto se quelle stazioni per diversi motivi “virtuose” esistono ancora, se hanno avuto successo o se hanno fallito.
Pur con i limiti di una ricerca come quella, basata su di un numero limitato di località, mi sono bastate poche telefonate per capire che il panorama oggi non è molto cambiato e che le criticità rimangono. D’altra parte uno dei motivi per cui Sciare non se l’era sentita di proseguire in questo viaggio attraverso il “Piccolo è bello” va ricercato nell’assoluta mancanza di denaro da parte delle piccole stazioni per finanziare il progetto stesso, attraverso indispensabili pagine pubblicitarie sulla rivista.
Molte piccole stazioni di allora sono state chiuse, si direbbe in modo definitivo, in quanto gli impianti erano obsoleti e/o in perdita e le comunità di riferimento, spesso a torto, non hanno considerato interessante l’indotto che gli impianti potevano creare, se ben gestite. Gli esempi sono tanti: mi soffermo su Laces in Val Venosta e su Maseben in Valle Lunga.
I responsabili di Laces vedevano come unica soluzione per sopravvivere il collegamento con Schwemmalm, la bella stazione della Val d’Ultimo. Venuto meno questo oneroso ed ambizioso progetto, i finanziatori locali hanno preferito chiudere i rubinetti con cui venivano coperte le perdite e dedicarsi alla produzione di mele. Dopo anni di chiusura la bella notizia della riapertura. L’impianto é sempre di proprietà di un’associazione locale, cosa senza dubbio positiva. Particolare interessante, a Laces è stato deciso il numero chiuso: il limite massimo è di 800 sciatori al giorno, per evitare il sovraffollamento delle piste. La località viene infatti rilanciata come stazione di “pure nature ski”, ossia basata “su di un nuovo concetto di sci e di turismo sostenibile”, sullo “slow ski”, sulla clientela familiare. Tutto condivisibile, peccato che siano ormai molte, forse troppe, le stazioni piccole e grandi che, per superare l’evidente crisi, puntano su questi piuttosto generici obiettivi. Laces, splendido belvedere sulla Val Venosta, con discese facili, malghe ospitali, possibilità di fuori pista e di gite di avvio allo scialpinismo, ha comunque tutte le carte in regola per rispondere alle nuove strategie.
Un caso triste è invece quello di Maseben in Valle Lunga. Gianni Klocner, istruttore nazionale ai tempi di Hubert Fink e della Valanga Azzurra, era riuscito in un’impresa ciclopica: acquistare un albergo a struttura familiare (l’accogliente Alpenfriede nei pressi di Melago), la vecchia seggiovia, l’albergo-rifugio in quota (l’Atlantis). Facendo di Maseben un caso pilota in Italia di stazione integrata, secondo il cosidetto modello “corporate”: impianti e strutture ricettive possedute da un unico proprietario. Inoltre Maseben era l’unica stazione delle Alpi a potersi vantare di non utilizzare la neve artificiale, che Gianni giustamente detestava. Facendo non pochi sacrifici, Gianni Klocner riuscì a rimettere in sesto la seggiovia e a creare una delle più affascinanti stazioni delle Alpi, con il delizioso paese di Melago in basso, punto di partenza e di arrivo di gite come la Palla Bianca, la cima Barbadorso e la Weisseespitze, con la stupenda discesa fuori pista servita dagli impianti della Kaunertal austriaca. Raggiunto per telefono, Gianni Klockner, ormai ottantenne, stanco e sfiduciato, purtroppo mi ha detto che ha dovuto arrendersi: ha ceduto l’impianto a privati, che per ora l’hanno tenuto fermo. L’Atlantis in quota però funziona ancora, lo si raggiunge con le pelli o con un gatto delle nevi. Non tutto è perduto!
Ci sono poi le stazioni che hanno continuato a sopravvivere grazie ai contributi pubblici, senza una strategia innovativa, senza idee, senza la spinta di un management coraggioso e creativo. Sono purtroppo stazioni che ricordano i malati terminali. Ne è un esempio Panarotta, la piccola stazione sopra casa mia, in Val dei Mocheni. Panarotta presenta condizioni ideali al fuori pista facile e sicuro e all’escursionismo invernale itinerante. Boschi radi perfettamente esposti a nord, malghe e accoglienti agritur isolati, neve farinosa anche in tarda stagione. Boschi che non hanno nulla da invidiare a quelli dell’eliski canadese. Purtroppo i responsabili della stazione non sembrano accorgersi di tutto questo e continuano testardamente ad allargare le piste vuote e a tentare senza successo (manca l’acqua!) di innevarle artificialmente.

Passiamo alle stazioni che continuano a lottare per sopravvivere, che fanno di tutto per non entrare nella logica aberrante dello sci di massa, dei caroselli dello sci sintetico. Stazioni che sanno quanto valgono. In questo gruppo troviamo delle perle rare come La Grave in Francia: la stazione villaggio, la stazione internazionale dello sci fuori pista, la stazione non stazione, la mecca dei migliori freeriders del mondo. L’anno prossimo scadono i permessi dell’ardita funivia costruita con i soldi della comunità montanara dall’ing. Denis Creissels nel lontano 1976. La funivia copre un dislivello incredibile di oltre 1800 metri sciabili, esposti a nord, rigorosamente senza piste battute. È ben noto, anche se nessuno lo dice, che sono spesso le piste, molto di più degli impianti, a degradare la montagna. A La Grave di degrado della montagna proprio non si vuol sentire parlare: nessuna pista, nessun puzzolente e rumoroso battipista, nessun super albergo con piscina e wellness, nessuna orribile rete tipo guardrail autostradale lungo gli itinerari, nessun impianto minore a turbare la logica delle lunghe discese. A La Grave, ultima utopia, si crede ancora nella libertà assoluta di sciare responsabili sulla migliore polvere delle Alpi. Una stazione intermedia realizzata su di un pilone permette di sciare quando la neve non raggiunge più i 1450 metri del bellissimo villaggio dell’undicesimo secolo, 506 abitanti, trasformato in un centro ricettivo diffuso e discreto.
Poco prima dell’inaugurazione dell’ardita “téléphérique”, gli ambientalisti estremisti di allora fecero saltare con una bomba la stazione di partenza. Fu un vero boomerang per loro, visto che i soldi per costruirla erano i sudati risparmi dei montanari locali. I permessi per il vecchio impianto scadono nel 2017 e non ci sono i soldi per rifarlo. L’ing Creissels, diventato proprietario dell’impianto da lui progettato, a 81 anni compiuti sta lottando anche nelle aule dei tribunali per cercare di mantenerlo in vita. L’ipotesi più realistica è che La Grave venga inghiottita nel carosello dello sci sintetico della vicina Les Deux Alpes. Come è già successo ad Alagna, altra mecca internazionale del freeride, finita nel carosello del Monterosaski, dopo lo smantellamento della funivia in tre tronchi per Punta Indren, capolavoro ingegneristico di Giorgio Rolandi. Se questo succederà anche per La Grave sarà davvero un grave lutto per il grande sci.
Un’altra piccola stazione che sembra dar fastidio a tutti, salvo a chi di sci capisce ancora qualcosa, è Pian dei Fiacconi in Marmolada. Le analogie con La Grave sono molte, anche qui si direbbe proprio che il modello perverso dei grandi caroselli voluti da imprenditori senza scrupoli, nonché dai politici e dagli studiosi da loro foraggiati, non finirà di fare danni.
Poche infine sono le stazioni virtuose che sono riuscite a consolidare il loro vantaggio competitivo, grazie ad un management sensibile, pragmatico, coraggioso ed esperto. Dimostrando ancora una volta che ciò che conta sono soprattutto uomini capaci di gestirle, uomini che devono essere profondi conoscitori del territorio, uomini sensibili alla bellezza del paesaggio, alla storia e alla cultura dello sci. Non montanari arricchiti attraverso le speculazioni edilizie. Non fighetti in giacca e cravatta usciti da prestigiose business schools. Un esempio di stazione virtuosa di questo tipo è Plan in Val Passiria. L’anima di Plan si chiama Luis Hofer, nativo del piccolo borgo a 1620 metri. Luis è riuscito a rinnovare la vecchia seggiovia sostituendola con una cabinovia e con una nuova seggiovia che raggiunge i 2500 metri. Inoltre ha migliorato la già bellissima pista di slittino, lunga 3,5 chilometri. Le piste vengono innevate con i cannoni quando necessario ma tutta l’energia per far funzionare la stazione proviene da una centralina fatta costruire da Luis sul torrente Pfelderer. In estate il surplus di energia viene venduto all’Enel e questo aiuta a far quadrare i bilanci. A Plan, delizioso piccolo villaggio in cui non si gira in auto ma solo a piedi o in slitta, non si trova mai una camera libera, è il tutto esaurito inverno ed estate, malgrado si sia riusciti ad aumentare i posti letto da 350 a 420. Nelle sere d’inverno si pattina sul ghiaccio mentre durante il giorno chi non scia ha a disposizione chilometri di sentieri di neve battuta, in un paesaggio da fiaba nordica.
Un’altra stazione in cui si vive un’atmosfera di altri tempi è Minschuns in Valle di Monastero, un poggio soleggiato facilmente raggiungibile da Glorenza ma in territorio svizzero. Qui solo impianti leggeri, ossia 3 skilift poco impattanti, di cui due molto lunghi, dislocati in un vasto territorio dominato dal Piz Sesvenna, con possibilità di discese fuori pista di prim’ordine. Come quella dal Vallatscha fino in fondo valle (830 metri di dislivello), passando per La Posa, un rifugio agritur dove non arrivano le auto, poi giù fino al villaggio di Lu, dove inizia una pista per slittini illuminata di notte. Tutti gli itinerari fuori pista sono segnati da paline gialle e il sottobosco è tenuto pulito per evitare incidenti ai tantissimi freerider che lo frequentano. La calma che si respira fra queste montagne attira anche numerosi escursionisti invernali, con la proposta di lunghe passeggiate su neve battuta. Come quella al paesino fuori dal mondo di S-charl 1810 m, attraverso la wilderness totale di questa zona ai confini del Parco Nazionale Svizzero. Daniel Pitsch, direttore della stazione da moltissimi anni, maestro di sci, è nato fra queste montagne. È lui la mente della stazione. Gestisce anche un agriturismo e una malga a Tschierv, dove arriva la pista di rientro da Minshuns. Sogna una cabinovia per raggiungere gli skilift dal paese, anziché utilizzare uno skibus. Ma qui siamo in Svizzera, il finanziamento facile all’italiana per gli impianti di risalita non è previsto!

Un ultimo esempio vincente: una stazione diffusa lungo un’intera valle, con una ricettività basata esclusivamente su strutture familiari, con impianti in alta quota che funzionano fino a metà giugno, serviti da una strada privata per raggiungerli: si tratta della Kaunertal austriaca, non distante da Passo Resia. Ci sono sia impianti moderni che skilift, entrambi progettati per servire itinerari di fuori pista e di freeride di ogni difficoltà, con tanto di skibus per recuperare gli sciatori nei punti di arrivo. Dopo la Grave è questa indubbiamente la stazione delle Alpi più adorata dai giovani freeriders, con un impatto sul territorio decisamente più contenuto di quello delle moderne stazioni sintetiche. In origine si trattava di una piccola stazione di sci estivo, simile allo Stelvio. La Kaunertal ha saputo riciclarsi in modo intelligente, coinvolgendo tutta la valle e diventando la stazione perfetta per lo sci di tarda primavera: quando le altre stazioni sono ormai chiuse la Kaunertal segna il tutto esaurito, alla faccia di quelli che ignorano le meraviglie dello sci primaverile e promuovono quello invernale, quando di norma manca la neve…
Giorgio Daidola

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