Un simbolo chiamato Cheneil

16 aprile 2010

Dieci anni fa, di fronte all’ennesimo dibattito sul futuro della conca di Cheneil in alta Valtournenche, scrivevo sulla Stampa che «ci sono luoghi poco appariscenti, ma traboccanti di vita e poesia. Paesaggi dell’anima che hanno incantato generazioni, sovrapponendo fascino antico a fascino rinnovato senza consumarsi mai. Luoghi che si direbbero generati da un disegno immortale. Cheneil è uno di questi posti».
Poche case di pietra in una conchiglia di pascoli, proprio in faccia al Cervino, a duemila metri di quota. L’abbé Amé Gorret, che vi crebbe nella prima metà dell’Ottocento badando alle vacche, lo descrisse così:
«Cheneil è innanzitutto una grande distesa di prati sui quali serpeggia grazioso il torrente, circondati da una prima barriera di monti; segue una seconda sfilata di pascoli incorniciati da altre montagne e coronati dalle cime più alte. A Cheneil coesistono un’immagine di vita e di animazione, e un quadro di serenità e di calma».
A quel tempo Cheneil assomigliava alla solitaria conca del Breuil, ai piedi del Cervino. Le stesse luci, gli stessi odori. Poi è arrivato il turismo e il Breuil si è animato di uomini in redingote e signore con cappello e crinolina, intente a scrutare gli eroici alpinisti di ritorno dalla Gran Becca. Ma non era ancora niente. Doveva arrivare l’industria dello sci a cambiare il volto della Valtournenche. In pochi decenni del Novecento l’oro bianco ha trasformato il Breuil in Cervinia, con le sue metastasi di cemento, mentre Cheneil è rimasto miracolosamente Cheneil, senza strada e senza automobili. Una scandalosa isola di silenzio.
Dopo molte villeggiature che assumevano valore di pellegrinaggio, Lalla Romano ha coniato per la verde conca delle sue vacanze alpine un nome di fantasia: Pralève. Era il titolo di un libro e la difesa di un segreto. Nella prima pagina si legge:
«Gridi rombi canti di acque sono i suoni della conca ed erano anche quelli della valle, un tempo. Ora soltanto a Pralève si sentono ancora. La valle, non più solitaria, è percorsa dalle automobili che non possono fare in senso inverso il balzo del torrente… Non è comodo arrivare a Pralève. Non è neanche comodo starci, nel senso che mancano parecchi “conforti”; e questa è la seconda ragione del suo privilegiato isolamento. Conviene tralasciare le altre: è come cercare le prove dell’esistenza di Dio».
Negli anni Sessanta c’era solo la mulattiera. I rifornimenti arrivavano a dorso di mulo, due volte al giorno. Poi, nel 1971, la carrozzabile ha raggiunto la piana di Chanlève, a meno di un’ora di cammino, e negli anni successivi le ruspe si sono fatte strada nel bosco di conifere fino alla piccola piana sotto l’ultimo balzo, che è diventata un parcheggio.
Ma come aveva scritto Lalla Romano, le automobili non hanno fatto in senso inverso il balzo del torrente e Cheneil ha mantenuto finora il suo isolamento, a vantaggio dei turisti e a svantaggio – si dice – dei margari e dei ristoratori, che devono arrangiarsi con la vecchia teleferica.
Di qui l’intenzione «di effettuare, sulla sinistra orografica del torrente Cheneil, un ascensore a piano inclinato da 8 posti e una strada larga 3 metri (più un metro per cunette e bordi), per rispondere all’esigenza di collegamento tra il villaggio di La Barmaz e la conca di Cheneil», replicando sostanzialmente un progetto già presentato dalla Consorteria locale nel marzo del 2000, che ricevette valutazione negativa al VIA (delibera G.R. n. 3418 del 9 ottobre 2000), in quanto «la realizzazione della pista comporterebbe un sacrificio ambientale non compatibile con le esigenze di salvaguardia del sito».
Senza entrare nel contenuto tecnico del progetto, che è stato commentato punto per punto da un’accurata relazione critica di Legambiente Valle d’Aosta («le due opere previste, tanto più se realizzate entrambe, provocheranno impatti ambientali pesantissimi sul versante sinistro orografico del torrente Cheneil, ora ancora intatto e sede del sentiero storico verso l’alpe»), riesce difficile pensare che dopo una così lunga pausa di riflessione non si sia riusciti a concepire una soluzione adeguata per una delle conche alpine più cariche di storia e significati simbolici, facendone un esempio di lungimiranza culturale, tutela paesaggistica e coraggio progettuale. Non si tratta certo di rigettare le opportunità offerte dalla tecnologia per conservare il bel mondo che fu, ma, al contrario, di utilizzare quelle stesse opportunità per affrancare Cheneil dalle ruspe, dai motori e dall’ombra della speculazione. Esattamente, come scriveva la Romano, per non fare alla strada il balzo inverso del torrente.
Un’utopia? Forse, ma se esiste un posto per sperimentarla, quel posto si chiama Cheneil.
Enrico Camanni

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