Tre libri di Aldo Bonomi

31 ottobre 2013

Aldo Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Feltrinelli, Milano 2008

Aldo Bonomi, La Malombra. Il pedurante caso dei suicidi in una vallata alpina, Codice Edizioni, Torino, 2011

Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino, 2013

Il brillante e applaudito intervento di Aldo Bonomi al convegno di Cuneo dell’8 ottobre scorso, in occasione della presentazione del libro Terre Alte in movimento (guarda i videatti), ha come retroterra alcuni scritti in cui egli svolge una vasta riflessione a partire dalle sue numerose esperienze di indagine sul campo. Oltre ad alcuni articoli, come quelli che egli pubblica quasi settimanalmente nella rubrica “Microcosmi” del Sole 24 Ore, ci sono alcuni saggi, anche relativi ad argomenti molto generali, in cui Bonomi entra nel vivo della questione alpina. In Il Rancore (un tema ripreso poi nel saggio Sotto la pelle dello Stato, Feltrinelli 2011) è già chiaramente delineato il quadro entro cui l’autore si muoverà negli anni successivi. Dopo un primo capitolo sulle “piccole fredde passioni del rancore” (con interessanti excursus sul “cittadino territorializzato” e sulle identità locali), un secondo capitolo è dedicato alla questione settentrionale che nasce nel passaggio dal localismo alle “piattaforme produttive”. Qui vengono passate in rassegna le diverse situazioni territoriali del Nord, tra cui  “le aree tristi della montagna”, vittime di una “modernizzazione subita”.
In Malombra questa tristezza è analizzata a partire dal fenomeno dei suicidi in Valtellina, la provincia che raggiunge i valori massimi in Italia. La patologia del singolo mette a nudo quella della comunità tradizionale. Ciò che l’antropologo Annibale Salsa aveva descritto in termini di spaesamento e disagio esistenziale viene qui interpretato come difficoltà «di metabolizzare il nuovo» che investe inesorabilmente i territori montani non meno di quelli metropolitani. Quelle montane sono “aree tristi” (anche se non tutte allo stesso modo) perché, a dispetto di indicatori economici sopra la media nazionale,  si fanno sentire «quasi solo quando i lamenti territoriali diventano resistenza all’ipermodernità che avanza», portata prepotentemente da reti e flussi con cui le troppo deboli società locali non riescono a interagire positivamente, cosa che, aggiungo io, non stupisce, visto che ormai anche nelle grandi aree urbane  comandano i padroni delle reti. Ma c’è pur sempre una differenza. Infatti secondo Bonomi nel resto del territorio settentrionale esistono “snodi” e “piattaforme competitive” capaci di afferrare le opportunità di quella che egli chiama “quarta ondata” della modernizzazione. Le prime tre “ondate” sono state nelle Alpi quella delle grandi fabbriche fordiste e delle centrali idroelettriche, quella dell’economia di confine (specie con la Svizzera) e quella del turismo di massa. Tutte in varia misura subite e comunque non governate dagli attori locali, i quali oggi più che mai si trovano nella difficile transizione «tra il non più e il non ancora».
La ricetta per far sì che la montagna con le sue risorse strategiche «non rappresenti più un luogo della periferia, ma si collochi al centro di una zona nevralgica del rapporto tra locale e globale» è, per Bonomi, quella di essere sempre più “cerniera”. Occorre inserirsi nei circuiti globali uscendo dai troppo limitati confini del comune o della vallata, governare la propria modernizzazione facendo sistema alla scala dell’intero arco alpino, moltiplicando al suo interno “snodi” e “piattaforme competitive”, rivendicando maggiore autonomia politica e acquisendo maggior autonomia funzionale. Detta così questa proposta potrebbe sembrare utopistica, ma, anche se le relazioni tra territori alpini basate su flussi di persone, denaro e merci si chiudono di regola entro ambiti geografici meno che provinciali, i motivi per far rete da Tarvisio a Pieve di Teco ci sono eccome. Secondo me si basano soprattutto sul comune interesse di gestire “dall’interno” ciò che più caratterizza l’ambiente alpino. E principalmente: 1) essere la più grande riserva di biodiversità e di acqua dolce d’Europa; 2) essere l’attraversamento obbligato di una grossa parte dei traffici continentali da e verso il Mediterraneo; 3) avere un’economia e una cultura storicamente basata su potenzialità specifiche dell’ambiente montano, grazie alle quali oggi, come afferma giustamente Bonomi, esso da “periferia” sta diventando “centro”.
Nel Capitalismo in-finito egli riprende il tema del “capitalismo molecolare” (titolo del suo noto saggio edito da Einaudi nel 1997) per chiedersi che cosa ne è, nella crisi odierna, della miriade di piccole e piccolissime imprese legate tra loro da «reti corte di prossimità dove tutto si teneva» entro il “contenitore famiglia-paese-distretto”: un “rachitismo molecolare” ormai inadatto a rapportarsi al capitalismo delle reti lunghe.  In questa visione più vasta e generale, nel capitolo sulla “resilienza dei territori”, l’autore ritorna a occuparsi dei territori alpini: «una piattaforma territoriale con peculiarità proprie, distinte dai motori produttivi pedemontani con i quali intrattengono un rapporto tutt’altro che pacifico». L’analisi di questo rapporto gli permette di approfondire gli spunti del saggio del 2008, individuando nella «cintura urbana che “circonda” e poi penetra nelle Alpi lungo i grandi assi di comunicazione» il tramite di quelle dinamiche globali che portano il territorio alpino ad essere sempre più eterodiretto e dipendente. Sia «depauperandolo di quel capitale sociale, orientato all’innovazione e alla creatività, indispensabile per uscire dalla successiva crisi del modello industriale», sia svalutando le attività economiche che si fondano sulle caratteristiche specifiche della montagna, per valorizzare invece certe sue risorse settoriali (acqua, energia, neve, ecc.) con investimenti e benefici in larga parte estranei ai contesti locali. Di fronte a questo scenario apocalittico (ma purtroppo realistico) Bonomi rilancia l’idea di una Piattaforma alpina che va dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia (a Cuneo l’ha chiamato un “ferro di cavallo”) e pone come condizione necessaria una maggior autonomia dell’assetto istituzionale. Infatti oggi «al di fuori delle aree in cui vigono statuti autonomi la montagna appare sospesa tra abbandono senza ritorno e metropolizzazione». La contro-prova – egli scrive – è offerta dal Trentito Alto Adige, dove l’autonomia riesce a «tenere assieme la parola antica “comunità” con quelle ipermoderne dell’innovazione e della competizione». Ed è appunto quello che dovrebbe e potrebbe fare una “piattaforma” (però, che brutta parola!) estesa a tutto l’arco alpino.
Questa tematica è oggi essenziale nel dibattito sulla macroregione Alpina europea, la cui istituzione è stata approvata il 18 novembre scorso a Grenoble da tutte le Regioni. Ma come? Da un lato abbiamo chi, come Marco Onida a nome della Convenzione delle Alpi, identifica la macroregione con quello spazio di 200.000 Kmq  (con 7, 5 milioni di abitanti) caratterizzato da caratteri di montanità. Dall’altro c’è invece chi pensa (a Bruxelles e ora anche nei paesi membri interessati) a un’area alpina di 450.000 Kmq con 70 milioni di abitanti, che comprende anche la “cintura urbana” di cui parla Bonomi. In entrambi i casi il punto cruciale è il rapporto tra questa “cintura” e la montagna nel suo insieme. Non credo che un programma di cooperazione macroregionale alpina si possa definire tale se non si propone di superare l’opposizione tra città e montagna in modo vantaggioso per entrambe queste realtà. E non vedo altro modo se non quello di mettere al centro di esso non tanto il rapporto transfontaliero delle città e delle metropoli tra di loro – un rapporto che comunque non potrebbe riguardare  l’intero arco alpino, ma solo le sue grandi sezioni trasversali (Torino-Lione, Milano-Zurigo, ecc.) – quanto piuttosto un più generale scambio città-montagna che trovi la sua specificità e la sua unità di azione nelle tre caratteristiche alpine che ho menzionato prima (ambiente, attraversamento, tipicità socio-culturale ed economica). Ma tutto ciò, come afferma Bonomi, richiede un’autonomia istituzionale sufficiente a far sì che la mediazione tra reti corte e reti lunghe, esercitata dalle metropoli dell’avampaese, non si traduca in un futuro di semplice dipendenza della montagna da interessi esterni. Dello stesso parere è l’on. Enrico Borghi, che propone di inserire nel disegno di legge Delrio sull’abolizione delle province il riconoscimento di uno statuto simile a quello delle aree metropolitane ai tre “distretti alpini” (ex Province) del Verbano Cusio Ossola, di Sondrio e di Belluno più una più precisa codificazione delle Unioni di Comuni montani (leggi: farne un sostituto efficace delle disciolte Comunità montane). E’ probabilmente ciò a cui si può realisticamente puntare nell’immediato. Resta comunque valida l’idea di Bonomi di creare una rete “a ferro di cavallo” che permetta a tutti i sistemi entro-alpini (Regioni autonome, nuovi “distretti”, Unioni) di fare squadra sui temi di comune interesse.
A questo punto chi ci legge a sud del Po si chiederà: e l’Appennino? E le montagne delle due grandi isole? Stranamente Bonomi nella sua lunga analisi sulla resilienza dei territori di tutta l’Italia non ne fa oggetto di una trattazione distinta da quella delle regioni a cui appartengono. Ma anche queste terre alte – ispiratrici tra l’altro del grande programma “Aree interne”  lanciato da Fabrizio Barca – meriterebbero un ragionamento d’insieme. La nostra rivista è aperta ai contributi di chi ne vorrà trattare.
Beppe Dematteis

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