Montagna sintetica

1 giugno 2012

«La notte sarebbe trascorsa senza inconvenienti se le pulci non mi avessero tormentato con furia crudele: un gruppo di esse eseguì un fandango indiavolato sulla mia faccia al suono della musica che una loro simile eseguì con fili di fieno sul mio orecchio».
Edward Whymper descrive così, nel suo libro “Scrambles amongst the Alps” (1871), la notte trascorsa in una stalla alla vigilia del suo primo tentativo di scalata del Cervino. A breve distanza dall’alpeggio in cui pernottò l’alpinista inglese, oggi sorge il rifugio Duca degli Abruzzi all’Oriondé recentemente ristrutturato e trasformato in un vero e proprio albergo d’alta quota raggiungibile con la jeep. Si stava meglio quando si stava peggio?

La conca del Breuil, dal fascismo rinominata Cervinia, rappresenta il paradigma dell’evoluzione di un certo turismo alpino. Confrontare il suo aspetto odierno con le fotografie storiche e le descrizioni dei pionieri, da de Saussure a John Ruskin, o dei turisti borghesi alla De Amicis, provoca certamente malinconia. Ma la nostalgia canaglia non porta lontano e, soprattutto, non offre un’alternativa concreta all’inevitabile processo di omologazione che il turismo impone alle sue mete predilette. Basta recarsi sul versante opposto del Cervino, a Zermatt, per osservare un modello culturale e sociale antico tenuto in vita artificialmente a esclusivo beneficio del turismo di massa.
Esempi analoghi e più recenti si sono verificati nell’area che, fino a pochi anni fa, veniva portata a modello di uno sviluppo virtuoso del turismo alpino: la Provincia di Bolzano. Anche qui una serie di elementi vincenti, particolarmente apprezzati dai visitatori, è stata replicata portando spesso alla perdita della genuinità che rappresentava la particolarità dei luoghi. Come nel caso dei masi chiusi, ormai raggruppati in un marchio di qualità che impone una lunga lista di criteri portando inevitabilmente a una rigida standardizzazione a scapito della spontaneità. Gli elementi tradizionali come la stube, i gerani ai balconi e la cucina tipica rischiano di apparire stucchevoli quando vengono replicati in serie.
La costruzione del Matterhorn, il finto Cervino, all’interno di Disneyland in California nel 1959 è stata una straordinaria occasione di riflessione sulla differenza tra la montagna vera e la sua rappresentazione. In realtà già un secolo prima, nel 1871, l’alpinista e viaggiatore Leslie Stephen aveva liquidato la questione con la sua illuminante definizione delle Alpi come playground of Europe. Recentemente l’etnografo svizzero Bernard Crettaz parla di Disneyalp per indicare sia «la montagna folle, ultima espressione delle Alpi come terreno di gioco», sia «la parte esemplare delle Alpi misurate, equilibrate, che assomigliano alle immagini della “montagna di sempre”». Secondo Crettaz, ciò che tiene insieme le due realtà è quella forma di ecologismo espressa dal turismo verde come strumento promozionale e commerciale: elementi che trasformano gli alpeggi in «riserve ecologico-locali della grande disneyland».
L’evoluzione di una località da “luogo” a “non luogo” è quindi inevitabile? Il gruppo di baite frequentate da pochi viaggiatori alternativi è destinato ad adeguarsi al gusto delle masse che tutto appiattisce e rende uguale? Probabilmente sì, se la dimensione in cui si opera è esclusivamente turistica. A questo punto si inserisce il progetto di Dislivelli che intende introdurre degli elementi in più all’uso della montagna per motivi di svago.
Per uscire da questa gabbia non è certo possibile eliminare il turismo che, in una montagna marginalizzata dal punto di vista economico e sociale, rimane un’imprescindibile fonte di sussistenza. Allo stesso modo è necessario tendere verso attività con minore impatto sull’ecosistema tenendo ben presente il concetto di limite, una caratteristica esemplare della montagna che per secoli ha imposto le proprie specificità ambientali all’attività umana. Una delle risposte sta nell’integrazione delle attività di svago con la realtà economica, culturale, sociale ed ecologica del posto. Il “luogo” deve essere un punto di incontro tra turisti e abitanti, deve promuovere la cultura proveniente da fuori a beneficio dei locali e la cultura del luogo per i forestieri; deve operare un’intermediazione e un raccordo tra diversi stili di vita e proporne uno proprio animando il territorio in cui si trova.
Il concetto è assai innovativo perché comporta lo scardinamento di un modello radicatosi in oltre un secolo di storia. Può prendere ispirazione da quella particolare forma di sobrietà che la montagna e il suo ambiente severo hanno insegnato a generazioni di montanari. Si tratta di un progetto ambizioso, che necessita di discussione e confronto tra chi gestisce i “luoghi” e chi si occupa di ricerca. Ma le sfide più difficili sono anche quelle che danno maggiori soddisfazioni come insegna l’alpinista che raggiunge la vetta della montagna.
Simone Bobbio

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