Montagna di chi?

13 aprile 2010

Erich Giordano e Lorenzo Delfino, Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Scarmagno 2009, Priuli & Verlucca.

…nell’atto stesso, pone anche a sé il limite di non poterla conoscere per nessuna categoria, e poterla soltanto pensare a titolo di un che ignoto.
Immanuel Kant, Critica della ragion pura

Chiamiamo dunque opacità ciò che protegge il Diverso, la violenza contemporanea è la risposta che le società oppongono all’immediatezza dei contatti, la rabbia inconscia e disperata di non comprendere il caos del mondo.

Édouard Glissant, Poetica della relazione

È stato definito un “saggio appassionato”, ossimoro che suona un po’ falso allo stesso modo di “conferenza allegra” o “trattato spensierato”. Eppure il lavoro composito e complesso di Erich Giordano e Lorenzo Delfino riesce nella difficile impresa di infondere al rigore teorico delle argomentazioni un supplemento d’anima etico e un “innamoramento della cosa” decisamente fuori dal comune. Ugualmente originali, se non addirittura coraggiosamente impopolari, sono le scelte e le conclusioni dei due autori. La tesi sostenuta nel loro saggio (quello che dà il nome al libro) è dichiarata fin dal titolo: “Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità”. L’Altrove è la montagna stessa, non un semplice altro-da-sé in qualche modo simile a noi e a noi assimilabile, ma un qualcosa di totalmente altro da un punto di vista ontologico e di accettato come tale. Un quid che rimane in parte inconoscibile e mai risolto del tutto dalle etichette che i vari abitanti, fruitori, amanti, difensori e sfruttatori delle terre alte più o meno consapevolmente applicano alle montagne. Con le parole del geografo alpino Werner Bätzing, “i diversi attori – partiti, governi, associazioni, circoli e Ong interne o esterne alle Alpi – propongono ciascuno la propria immagine delle Alpi come quella giusta e valida per tutti”. L’“appropriazione indebita” della montagna da parte di chi la vuole di volta in volta tradizionale, pura, occitana, franco-provenzale, turistica, arcaica, moderna, protetta, per tutti o per un pugno di eletti è difficile da rilevare, perché, a tutta prima, la montagna sembra quanto di più reale e scontato ci sia: “è lì” sotto il cielo, in pietra e nevai, pascoli e alpeggi, vacche e marghé, impianti di risalita e alberghi, mulattiere e trafori. “Il casus belli sta tutto qua, nel rendersi conto che la montagna illude con la sua presenza rocciosa, creando un equivoco non risolto tra la materialità del terreno e la presupposta univocità delle idee che le associamo”. A partire da questa constatazione, Giordano e Delfino esplorano in particolare quelle posizioni che con più forza e con più successo tendono oggi a colonizzare l’immaginario della montagna, le posizioni di chi rivendica identità forti, autentiche, tradizionali, specchio della “vera” montagna.

Il libro è completato da due saggi introduttivi e da diciotto interviste a persone che da prospettive differenti e talora lontanissime vivono la montagna. Nel saggio d’apertura Enrico Camanni traccia un inquadramento storico delle trasformazioni del mondo alpino e dell’immaginario a esso legato. In altre parole, non solo le Alpi, ma anche il modo di guardare e di pensare le Alpi si è modificato nei secoli: se i Romani  vi vedono solo corridoi di transito e serbatoi di metalli, a lungo le Alpi si sono identificate con gli insediamenti di fondovalle, gli alpeggi, i pascoli e le fortificazioni sui colli; l’alternanza di secoli di clima mite e piccole glaciazioni insieme alle vicende della grande storia hanno determinato i periodi di fioritura o declino delle valli alpine, che in età moderna, con l’affermazione degli stati nazionali, ne diventano l’appendice periferica. Percorse da soldati e pellegrini, da emigranti e perseguitati, da commercianti e contrabbandieri, disegnate dai cartografi, spezzate dai confini, contese dagli eserciti, studiate dagli scienziati illuministi, cantate dai poeti romantici, scalate per gloria o per gioco dagli alpinisti, invase dai turisti: è la storia delle Alpi negli ultimi due millenni o poco più. Brutte e inutili, orrende e sublimi, arcaiche e pure, agro-silvo-pastorali e turistiche, etniche e globalizzate: le Alpi descritte da Camanni sono un mondo complesso, che oggi leggiamo attraverso stratificazioni di significato sedimentate nei secoli e ancora imbevuti di miti di purezza e autenticità duri a morire.

Il saggio di Valentina Porcellana sviluppa il discorso di Camanni, analizzando la questione dell’identità alpina sotto la lente dell’antropologia. Le Alpi, un altrove “interno” e quasi “familiare” sono infatti oggi teatro di operazioni di recupero e ricostruzione di identità e tradizioni, che hanno trovato nella Legge regionale 482/1999 riconoscimento, tutela e sostegno finanziario. Ma spesso i ritorni alle radici nascono come reazioni a un disagio di tipo sociale e economico, a processi di spopolamento, abbandono, marginalizzazione e omologazione cui si cerca di far fronte appellandosi a specificità culturali o etniche (quasi sempre a entrambe) che comportano irrigidimenti e forzature.

Il rischio di questo “eccesso di cultura”, nell’accezione introdotta da Marco Aime, è quello di trasformare la fluida ricchezza delle differenze linguistiche in un rigido confine culturale, codificato e cristallizzato: la legge, infatti, “nello sforzo di precisare le categorie che godono dei benefici previsti dal dispositivo, impoverisce la varietà dei fenomeni a vantaggio di una loro standardizzazione”. Le isoglosse si mutano in confini identitari e le identità e le culture vengono fissate una volta per tutte, sottratte al loro perpetuo scorrere e confinate in una teca fuori dal tempo e dalla storia, come spesso accade agli attrezzi di lavoro conservati nei musei etnografici.

La Vera Montagna, concludono gli autori, non esiste. L’autenticità e la purezza che proiettiamo sulla montagna dimorano piuttosto nel nostro sguardo di cittadini alla ricerca di un paradiso perduto che non è mai esistito. E in ugual misura, ma per motivi diversi, si trovano nello sguardo dei fautori delle identità forti, che nel produrre uno stereotipo positivo della montagna, ribaltano lo stereotipo di segno opposto ugualmente infondato che l’ha colpita a lungo, bollandola come un mondo chiuso e arretrato. Si paga così con la stessa moneta “un’attitudine sentenziosa e giudicante subita per anni”.

La conclusione è un orientamento etico, un tentativo di pensare la montagna senza avere la pretesa di volerla capire del tutto, di doverne catturare a forza l’essenza e imprigionarla in una bottiglia con tanto di etichetta “Montagna vera di origine protetta (a norma di legge regionale) – Altissima, purissima, autenticissima”. Un accettare di convivere con il non detto, con l’indicibile, con il vago, con l’opaco. Uno scacco della conoscenza, dunque. Un costeggiarne i limiti, un riconoscere che al di là delle nostre categorie umane, troppo umane c’è una montagna in sé che ci affascina e che possiamo solo desiderare – con rispetto, con amore. Sfuggendo faticosamente alla tentazione di definire la montagna vera, errore fatale che tramuta l’Altrove in una copia di ciò che siamo e ci condanna alla tristezza immensa di non amare altri al di fuori di noi stessi.

Questo per quanto riguarda la montagna. E i montanari? Parafrasando Guccini, si potrebbe dire che “i suoi montanari, se esistono, ci sono od ormai si son persi, confusi e legati a migliaia di mondi diversi”. Sono diciotto i montanari a vario titolo che i due autori hanno intervistato e fotografato, raccogliendo in una polifonia di voci talvolta dissonanti storie di vita, frammenti di esperienze, elementi di riflessione. C’è l’intellettuale e ci sono allevatori e artigiani, c’è il parroco e il musicista, ci sono studenti e pensionati, amministratori e consulenti. C’è anche l’industriale di successo, a incrinare una volta di più l’immaginario arcadico della montagna che ancora inconsapevolmente ci portiamo addosso. Ne emerge un quadro della montagna che si sottrae volutamente a ogni tentativo di facile sintesi, preferendo consegnare ai lettori un panorama in divenire, non pacificato e complesso, ma proprio per questo credibile e stimolante.
Irene Borgna

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