Marco, Dislivelli e il nostro albero quel giorno

30 luglio 2024

Come in altre memorie che ho ascoltato questa mattina, anche nella mia  non è possibile scindere, di questi momenti, la componente scientifica e tecnica da quella emotiva, umana ed empatica. Dove forse però la seconda è spesso più importante: vorrei raccontare quindi partendo da qui.

Il primo momento è legato al mondo di Dislivelli e alla collaborazione informale che Marco ha dato alla realizzazione del progetto INTERMONT, poi diventato il libro “L’interscambio montagna città”, realizzato con Beppe Dematteis , Federica Corrado e Erwin Durbiano.

Questo progetto più che un progetto era una sfida. Una maratona, di anni. L’intento, nella prima parte, era quello di quantificare tutti i flussi di scambio tra la città di Torino e la sua montagna. Dove tutti vuol dire tutti. Eravamo divisi in due gruppi: io e Beppe lavoravamo nella parte “dati” (gli scambi della montagna). Federica ed Erwin nella parte “governance”.Il progetto ha portato alla definizione del concetto di Metromontagna, per cui ha avuto una sua netta utilità. Ma in quei momenti quel lavoro era amore e odio.  Così c’erano delle giornate chiave, dei momenti topici in cui si decideva con Beppe di incontrare o scrivere a «esperti». C’erano stati quelli delle industrie, delle scuole, del verde, e quanti altri potrei ricordare. Ma quando serviva montare insieme prospettive trasversali ai dati, superare insidie e scalare altre montagne interpretative si diceva: «sentiamo Bagliani?». L’esperto degli esperti, potrei dire oggi. Così ci incontravamo con «Bagliani»: Marco. Tre, quattro, cinque volte, non ricordo. Il progetto di quella maratona senza fine era ormai amore-odio, ma andare a quegli incontri con Marco e Beppe era conoscere mondi. Erano avventure di ricerca: lo stesso Marco capiva la natura del tutto avventurosa di quel progetto, ma singole frasi, idee, opinioni, strategie, sguardi, valevano intere biblioteche. Un altro modo per scalare.

Non è mai scomparso questo perchè nel mio ultimo scambio di battute con lui, molto veloce e dico purtroppo online, mi ha riferito aspetti innovativi e drasticamente rilevanti delle sue ricerche  che ho sempre citato agli studenti, negli ultimi mesi. Li citavo non solo per la loro rilevanza: ma per gli stessi motivi per i quali gli studenti di questa mattina lo ricordavano con estremo e sincero affetto: credere in loro per superare le sfide collettive. Io citavo i suoi percorsi come montagne da scalare. Per dire: “vedete? c’è questo da fare, educatori. Buon lavoro, per aiutarci a cambiare il mondo”. Sono stato felice di apprendere solo ora che anche lui chiamava «climatologi», «oceanografi» i suoi studenti già ai primi incontri. Come i miei «educatori». Se la collettività, qualcuno direbbe la società, spesso svaluta il prossimo, gli altri, i giovani, svilendone i tratti essenziali, Marco capiva che per credere nella Scienza ed applicarla bisognava credere negli altri. Non può esistere amore per l’Ambiente senza unione, forse amore tra noi: amore come Ágape, quello disinteressato e senza fine.

Condivideva l’idea di affrontare la materia ambientale come parte del nuovo corso di Geografia Sociale. Da qualche mese gli avrei chiesto cosa pensava di due, tre questioni ardite, emerse dalla proposizione a studenti e altri di queste idee e informazioni che mi aveva suggerito. Domande che rimarranno non domandate, perchè non saprei più a chi domandarle – perlomeno allo stesso modo che avrei usato con lui.

Ma forse, più di tutto, ricorderei un momento persino banale di incontro con Marco. Ormai diversi anni fa.

Arrivavo un giorno da via Catania, come abitudine per recarmi in centro, e giunto all’incrocio alberato con corso Verona vedo una persona ferma nell’ombra del primo albero che mi guarda: mi aspetta. Non sono propriamente un occhio di falco, per chi mi conosce ben occhialuto, perciò lo riconosco solo dopo qualche secondo, Marco Bagliani che mi aspetta. Ovviamente mi aveva visto prima lui.

«Come va? Come va, coi tuoi dati?». Mi chiede. Dopo abbiamo parlato di piccole cose, di un caffè una volta che fossi passato, non ricordo bene il resto ma cose di questo tipo.

Ma c’era ben altro, nel suo essere con gli altri, se io dopo anni, di tutto quello che uno potrebbe ricordarsi, mi ricordo di un banale, comune, scontato incontro fortuito per strada. Ogni volta che passavo da quell’incrocio, in questi anni, mi ricordavo quell’incontro con Marco, che mi aspetta. Forse perchè non eravamo propriamente amici, nè parenti o compagni, come voi che, forse, leggerete. Eppure mi ha aspettato, per chiedermi come va.

Io me lo sono chiesto più volte: quanti incontri fortuiti per la strada ricordo a distanza di anni, della mia vita? Perchè li ricordi?

Ma solo lui si è fermato per chiedermi «come va, con i tuoi dati». In quella seconda parte più che dei «dati» c’era tutta la sintesi di me, di lui, del nostro mondo anche come missione e modo di vedere cose anche se piccole e brevi vissute insieme. C’era una cosa minuscola e di pochi secondi, ma leggevi dentro tutto quello che abbiamo ascoltato questa mattina del suo rapporto col mondo, con gli altri e la sua disciplina come scopo di vita.

Già Norberto Bobbio negli ultimi anni ricordava come non importano i libri che hai scritto, alla fine pensi, ti rimane quel caffè con un amico. Quello studente che ti ferma, per dirti cosa gli hai lasciato. Quel momento denso, che rende scontato tutto, senza quasi parlare.

Oggi, a distanza di anni, non saprei più come rispondere a «come va, con i tuoi dati», Marco. Sono cambiate molte cose. Ma ti ricorderò per sempre che mi aspetti, sotto a un albero, per chiedermelo.

Alberto Di Gioia

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