Light of Hope: dare un volto ai rifugiati nelle Alpi

4 maggio 2017

Ho conosciuto il programma SMArt in occasione dell’Alp Week che si è tenuta lo scorso autunno a Grassau, quando Sarah Huber – capo progetto nel programma in questione – ha condiviso con noi partecipanti una serie di scatti fotografici che ritraggono diversi profughi stranieri in una valle alpina della Svizzera. Colpito dalla forza comunicativa di queste immagini in bianco e nero, e dalla dialettica tra i volti degli stranieri in primo piano e il paesaggio culturale montano sullo sfondo (un rapporto molto evocativo, che mi ha rimandato, forse impropriamente, all’idea di “contrasto complementare” sviluppata da Antonio De Rossi su di un altro piano, nel suo “La costruzione delle Alpi”), ho deciso, grazie a Sarah, di conoscere meglio questa iniziativa.
SMArt (Sustainable Mountain Art – http://sustainablemountainart.ch/) è un programma lanciato nel 2014 dalla Foundation for the Sustainable Development of Mountain Regions (fondazione svizzera con sede a Sion, nel Vallese), con il supporto della Swiss Agency for cooperation and development e del Cantone del Vallese. Il suo obiettivo è quello di favorire, attraverso l’arte e in particolare tramite la fotografia, la consapevolezza, da parte sia dei decisori pubblici che delle popolazioni locali, delle sfide che interessano le regioni montane, in un’epoca di cambiamenti radicali come quella attuale.
I principali temi che vengono affrontati dal programma sono infatti il cambiamento climatico, le risorse idriche, la biodiversità, la sicurezza alimentare e, non da ultimo, le migrazioni, con particolare attenzione a quelle internazionali verso le aree montane. Alla base dell’approccio di SMArt vi sono alcuni dati generali, ben evidenziati nel sito istituzionale, relativi alle zone montuose a livello planetario: da un lato viene ricordato come le montagne occupino circa il 25% della superficie terrestre, detengano oltre il 70% delle risorse idriche totali e ospitino il 25% di tutta la biodiversità del pianeta; a fronte di ciò, dall’altro lato si evidenzia come nelle terre alte viva oggi poco più del 10% della popolazione mondiale, dato che va messo in relazione con i noti problemi dello spopolamento, della mancanza di risorse umane per la gestione e preservazione di territori fragili ma anche, oggi in misura crescente, con l’arrivo di nuovi abitanti in alcune regioni, quali quelle alpine.

Nell’ambito del programma, fortemente indirizzato a costruire reti a livello internazionale, sono diversi i soggetti e gli enti culturali svizzeri che ospitano artisti provenienti dal Sud o dall’Est del mondo: durante la loro permanenza in Svizzera, gli artisti realizzano opere orginali, riflettendo sulla propria percezione delle sfide e del cambiamento che interessano la regione montana che li accoglie. Nel fare ciò, si incontrano anche con artisti locali e con le popolazioni interessate, in momenti di confronto appositamente organizzati nei vari contesti.
I lavori artistici così realizzati vengono poi mostrati in esibizioni pubbliche nella Confederazione, proponendo ai decision-maker e alla cittadinanza una nuova e differente visione del territorio ospitante e delle questioni socio-ambientali che lo caratterizzano. Dopo che gli artisti sono ritornati nel proprio paese d’origine, il programma SMArt prosegue l’azione di diffusione e di comunicazione rispetto al lavoro realizzato, organizzando in tutta la Svizzera, ma anche nel resto del mondo, esibizioni collettive ed eventi internazionali.

Tra i partner internazionali del progetto, ci sono centri e istituzioni per la promozione culturale e per la fotografia di paesi quali la Mongolia, il Rwanda, il Marocco, la Cina e il Libano. Da questi luoghi, lontani fisicamente e culturalmente dalle Alpi svizzere, in questi 3 anni sono provenuti numerosi giovani artisti, soprattutto fotografi, tra cui, nel 2016 la sudafricana Lavonne Bosman (http://sustainablemountainart.ch/lavonne-bosman/?art=smart).
Lavonne concentra da tempo il proprio lavoro sui ritratti delle persone che vivono situazioni al margine, fisico e relazionale, della società, con una grande attenzione ai contesti ambientali e naturali in cui queste vite si collocano e si dipanano. Tra agosto e ottobre del 2016 la fotografa è stata “artist in residence” nel programma SMArt, scegliendo di sviluppare il tema della migrazione, come una delle sfide centrali per i territori alpini. Il villaggio in cui ha scelto di lavorare è quello di Medergen, nei Grigioni, un piccolo insediamento fondato dai Walser nel 1300 e situato a 2.000 metri di quota. Qui Lavonne è stata attratta innanzitutto dalla storia del luogo (nato proprio in relazione ad una grande migrazione alpina, avvenuta nel Medioevo) e dalle condizioni di vita dei suoi abitanti, che ancora oggi abitano case riscaldate solo a legna, senza acqua corrente, con la luce proveniente da rari pannelli solari e in estrema sobrietà di consumi. Ma poca distanza da questo villaggio, in un ex ski-hotel caduto in disuso, la fotografa sudafricana ha “scoperto” anche un centinaio di richiedenti asilo, provenienti da diversi paesi (quali l’Eritrea, il Sudan, la Siria, l’Afghanistan, fino anche al Tibet), ospiti temporanei, in attesa del verdetto in base al quale la loro richiesta di asilo sarà accolta o respinta.

Durante il suo soggiorno a Medergen Lavonne ha speso dunque la gran parte del suo tempo camminando sulle alture e lungo i sentieri che collegano il paese dei Walser con l’ex albergo dei profughi, incontrando e fotografando gli immigrati, ma anche i residenti storici, nella loro quotidianità d’alta quota, parlando e ascoltando molto, facendo ritratti immersi nel paesaggio culturale della montagna grigionese: le sfide e le difficoltà incontrate dai migranti le sono sembrate, in fondo, molto simili a quelle che hanno dovuto affrontare altri popoli di esuli, nei secoli passati, quando si sono insediati in territori spesso già abitati e hanno fatto i conti con la necessità di integrarsi, o perlomeno di instaurare una relazione con la società e la cultura preesistenti. Con una differenza sostanziale, tuttavia, che Lavonne ha subito evidenziato nel suo lavoro: la condizione di limbo vissuta oggi da questi immigrati, tenuti a lungo in una condizione di precarietà esistenziale da politiche e norme, quali quelle svizzere, che sembrano mirare all’isolamento (almeno temporaneo) dei profughi piuttosto che alla loro inclusione. Una forma di “confino” in alta quota, in zone prive di negozi, bar, luoghi di ritrovo, dove l’attesa non è mediata da nulla se non le montagne attorno.
In questi territori, in cui vivere è ancora oggi una sfida anche per quei discenti del popolo Walser che hanno deciso di restare, la fotografa sudafricana ha voluto stimolare, attraverso i propri ritratti, una presa di coscienza collettiva rispetto alla condizione di migrante, di profugo, di sradicato, di persona alla ricerca di un luogo di vita, ancorché temporanea: una sfida che può accomunare gli abitanti storici di questa parte delle Alpi e i nuovi arrivati, nell’affrontare un ambiente complesso, a volte duro e anche ostile, ma nel contempo ricco di risorse, di bellezza, di possibilità ancora da esprimere. Una sfida che può assumere i tratti della resilienza, laddove Lavonne è convinta che la differenza culturale sia essenziale per il genere umano almeno quanto la biodiversità per l’ecosistema.
Il lavoro fotografico su Medergen, che l’artista ha voluto intitolare “Light of Hope” (La luce della speranza), è da mesi ospitato, in modo itinerante, in diverse località della Svizzera così come al di fuori della Confederazione e può essere inoltre visionato sul sito http://lavonne.co.za/lavonnebosmanphotographicart/portfolio/first-light-migration-swissalps/. Una prossima tappa, a metà del mese di maggio, sarà presso il passo del Maloja, al confine tra Bregaglia ed Engadina, dove la mostra fotografica sarà esposta al pubblico in occasione del seminario internazionale “Foreign Immigration in the Alps and the Phenomenon of Refugees” (evento di cui parlerò in questa rubrica, nel numero di giugno della rivista).
Andrea Membretti

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