La storia di Massimo, tra le Piccole Dolomiti bresciane

1 aprile 2015

In Val Sabbia, provincia di Brescia, è un mite mercoledì di marzo, e dal fienile che abito in Pertica, tra Livemmo e Avenone, mi dirigo verso Presegno per conoscere un nuovo abitante delle nostre montagne, arrivato dalla città. Come sempre ci vado a piedi, lasciando l’auto a Ono Degno e percorrendo col mio cane i quattordici chilometri tra andata e ritorno, portando con me il frontalino che mi sarà utile al buio della sera.
Scavallando il Passo di Zenòfer mi si apre la bellissima vista della Corna Zeno e dei borghi di Bisenzio e Presegno, due gioielli architettonici incastonati sui pendii al solivo di quel complesso montuoso chiamato, per la natura calcarea della sue cenge aguzze, “le Piccole Dolomiti bresciane”.
Da Presegno, un piccolo paese a 1000 metri di altitudine, tra i più belli e altrettanto sperduti di Lombardia, mi viene incontro Massimo Braghini insieme alla sua cagnolina Lilli. Ci eravamo contattati su facebook, dopo che alcuni amici comuni me lo avevano indicato, assieme alla sua compagna Laura, come uno tra i nuovi abitanti della montagna bresciana. Massimo è fremente e gioioso, perché solo qualche istante prima sono nati due gemelli a una delle sue capre: un evento di straordinari valore e bellezza, specialmente per chi come lui è agli inizi dell’avventura di capraio di montagna. Prima di fare l’intervista nella sua casa all’interno del borgo antico, andiamo a vedere se nella stalla, ricavata in un antico fienile – come chiamano qui le antiche architetture rurali un tempo adibite a ricovero del bestiame, stoccaggio del fieno e produzione di burro e formaggio – tutto va bene e i capretti sono al sicuro.

Presegno è ai miei occhi sempre molto bello. Ci avevo fatto un campo scout nel lontano ’82, e all’epoca ci abitava ancora un centinaio di persone. Lo spopolamento dal dopoguerra in avanti si è fatto sentire anche quassù, ed ora, nelle antiche case dai bellissimi portali istoriati durante la Serenissima, ci vive solo una decina di abitanti. Le persiane vengono riaperte e le stradine tornano a rianimarsi in estate, quando gli originari tornano per trascorrere qualche giorno nei luoghi natii. Massimo, classe 1963, ha invece fatto il percorso inverso: due anni fa ha lasciato Brescia e il suo trentennale lavoro di odontotecnico per venire a vivere e lavorare quassù, affascinato dalla bellezza di questi luoghi e mosso dalla voglia di lasciare una vita che non si confaceva più alle sue aspettative e alle sue convinzioni etiche. «Non volevo fare più la vita che facevo prima, non trovavo più umanamente percorribile alzarsi la mattina, andare in ufficio, lavorare per comprarsi dei beni di cui spesso non si ha reale bisogno, stare con persone che non hai scelto. Una vita senza sogni, per me ormai priva di significato», mi confida. «La nostra è una società umanamente ed economicamente allo sfascio e il consumismo sta dando segnali di fallimento. Io ho voluto prendere in mano la mia vita e cercare di dare un senso a dei parametri etici che mi hanno sempre accompagnato e fatto fare certe scelte di tipo ambientalista e di sostenibilità socio-economica». Massimo ha un passato di attivismo nei movimenti pacifisti bresciani e nei circoli ciclistico-ambientalisti i cui associati percorrono sulle due ruote il territorio per scoprirne la bellezza e le peculiarità culturali e paesistiche, ed è stato così che insieme a Laura è arrivato prima nelle Pertiche di Val Sabbia e poi nelle vicine Piccole Dolomiti, durante una delle tante escursioni fuori porta. «Era il settembre 2011», ricorda. «Ci siamo innamorati di questi posti e da allora non siamo più andati via. Ho voluto conoscere tutte le Pertiche e cercare luoghi per l’acquisto in base alle mie modeste finanze. Abbiamo conosciuto molto bene degli abitanti di Presegno, che per un anno e mezzo mi hanno ospitato. Io venivo su da loro, mi davano una camera e il vitto, e io li aiutavo a fare i vari lavori contadini di montagna, come fare la legna, fare il fieno, mungere le vacche, pulire la stalla. Facevo quello che un tempo facevano i famèi, i famigli che prestavano manodopera stagionale nelle cascine. E se la nostra attività andrà avanti, la nostra azienda agricola si chiamerà proprio Famèi, per rendere omaggio a quei giovani che in passato hanno avuto un’umanità un po’ calpestata».

È così che Massimo decide di chiudere la propria attività e di prendere qualche capra. Laura, che ancora fa l’ostetrica a Brescia quattro giorni alla settimana per poi scappare quassù, appoggia Massimo nella decisione, condividendone i presupposti e la voglia di una vita più libera e a contatto con la natura, compatibile con le proprie convinzioni etiche. Il loro progetto è quello di realizzare un gregge di capre perché le ritengono tra gli animali più belli che ci siano e per la relazione che si riesce ad instaurare con loro. «Io le chiamo per nome e loro rispondono. Quando usciamo al pascolo e io vado a funghi loro mi stanno vicino», mi dice sorridendo. La scelta è ricaduta sulla camosciata delle Alpi perché si adatta bene alle condizioni climatiche e morfologiche montane e perché, rispetto alla più nobile razza delle Bionde dell’Adamello (con cui Massimo – mi confida – vorrebbe tentare un incrocio per dare al suo gregge caratteristiche di maggiore rusticità), ha una maggiore produzione di latte. Alle loro capre viene somministrato solo fieno locale, per favorire la pulizia e quindi il mantenimento dei prati stabili e dei pascoli di queste zone e per rendere la filiera produttiva la più corta possibile. Fare il fieno quassù, dove la pendenza dei terreni raggiunge spesso percentuali da far tremare i più potenti cingolati, significa segare a mano e trasportare quasi tutto sulle spalle, come una volta, con la bàśa, il tradizionale lenzuolo di canapa atto a contenere il fieno da trasportare nel fienile sul basto caricato sulla nuca.
«I parti dei capretti sono andati tutti bene e la cosa mi sta incoraggiando», mi dice. «Per me che sono all’inizio è importante, nonostante stia utilizzando il fieno fatto nella piovosissima estate 2014. Alle prime caprette nate ho dato i nomi di Lina e Santina, due staffette partigiane della brigata Perlasca che quassù fu protagonista di importanti capitoli della Resistenza bresciana».
E il rapporto con i seppur pochi abitanti locali come sta andando?, gli chiedo. «È buono. Loro mi permettono di far pascolare le mie capre e di fare il fieno nei loro terreni. Certo, devo stare attento che le capre non invadano orti e giardini. Io sono ancora nella fase dell’entusiasmo e dell’euforia, in cui tutto è bello e va bene. Vedremo tra qualche anno. L’importante è porsi con un’attitudine di rispetto e correttezza. Devi saper chiedere, ascoltare e imparare. In fondo io sono un cittadino fatto e finito: dico loro che voglio imparare e mi metto in una condizione di ascolto e rispetto. Cerco di perseguire una sostenibilità non solo ambientale ma anche sociale e umana». Anche Massimo è stato ben accettato dai locali, sia tra i pochi residenti che tra coloro che tornano per le vacanze, tanto da essere eletto nell’Associazione Amici di Presegno e Bisenzio, per la quale ha realizzato il sito web e organizza eventi: il racconto nella piazza di staffette partigiane, musica, recitazioni, escursioni per i sentieri della Resistenza verso i Monti di Paio, la Corna Blacca e i passi che comunicano con l’alta Val Trompia. Grazie all’associazione, ora a Presegno c’è anche un ostello e un circolo Arci sempre aperto. La creazione del sito web dedicato a questi borghi antichi e bellissimi è stata “secondo me un’operazione di valore, perché rende nota l’esistenza di posti come questo. I tanti contatti dall’estero mostrano l’interesse di chi, originario di qui ed espatriato in altri paesi, ricerca i luoghi natii propri o della propria famiglia. Inoltre, se chi da fuori vede che il borgo c’è ancora e c’è qualcuno che lo abita, magari è interessato a renderlo vivo e, perché no, a tornarci”. A Presegno è da poco nato anche il bel B&B “Piccolo Tibet” e si è trasferita una coppia che alleva vitelli. Tutte iniziative che aiutano a tenere una lucina accesa sul borgo, che aiuta a non farlo spegnere completamente. Potersi sedere all’accogliente circolo per bere qualcosa e ritrovarsi dopo il lavoro è una cosa importante.

In conclusione della nostra chiacchierata, Massimo getta luce sull’annoso problema della defiscalizzazione e della sburocratizzazione per chi fa la scelta di vivere e lavorare nelle aree marginali di montagna: «I borghi alpini dovrebbero essere aiutati in modo che economicamente stiano in piedi», dice. «Chi ha il coraggio di vivere e lavorare qua dev’essere incentivato e non assoggettato alla stessa tassazione e alla stessa burocrazia delle zone urbane, di fondovalle o di pianura. Se qui io faccio un caseificio, non posso essere assimilato ai controlli e alle normative dei caseifici del parmigiano-reggiano. Dovrebbero esserci sgravi fiscali importanti per chi per chi si occupa della cura dei prati e dei boschi, per chi tiene vivi questi splendidi borghi con strutture ricettive. Per fare un piccolo ma significativo esempio, il Comune di Lavenone di cui Presegno e Bisenzio sono frazioni ha dovuto acquistare uno spalaneve del costo di 80.000 euro per venire quassù a pulire le strade per la decina di abitanti che ci abitano. Sono costi enormi, che i Comuni fanno sempre più fatica a sostenere per i motivi che conosciamo». E denuncia: «Non credo ai politici che vogliono aiutare queste zone marginali per non farle morire. Se ci fosse veramente l’interesse a tenerle vive vedremmo dei segnali concreti, che invece non ci sono. In Italia abbiamo queste bellissime peculiarità che risiedono spesso in aree remote, specialmente lungo l’arco alpino e prealpino. L’Italia è fatta di queste migliaia di piccole realtà che però devono essere aiutate».
Prosegue: «Il motivo per cui noi, nuovi montanari, siamo qui è che siamo degli irriducibili, delle teste un po’ matte, perché abbiamo voglia di cimentarci e sperimentare su noi stessi. Dal momento in cui c’è qualcuno che non molla si danno dei segnali positivi, ma ci dovrebbe essere un aiuto concreto e tangibile da parte delle istituzioni». E a proposito del turismo, aggiunge: «La montagna parco-giochi non si addice a questi luoghi impervi e remoti, che non sono fatti per quel tipo di frequentatori di montagna la cui massima aspirazione è sfoggiare gli sci di ultimo modello, scodinzolare sulle piste, fare shopping e fare vita notturna. Qui non possono e non devono arrivare le orde di turisti che vengono dalla città per divertirsi».
E su un possibile ripopolamento di queste aree più diffuso e di massa, che ne pensi?, gli chiedo a conclusione della nostra chiacchierata. «Credo che un eventuale ritorno alla terra nelle aree di montagna avverrà forse non per scelta, ma per la mancanza di altre prospettive. Penso che la crisi economica che stiamo vivendo sia un naturale processo economico del mondo occidentale di discesa che naturalmente avviene dopo un’ascesa. È un’opportunità di evoluzione, non di regressione, dove finalmente, dopo l’abbuffata consumistica dagli anni Sessanta in poi, ci è data la possibilità di riuscire a dare il giusto valore alle cose. È impensabile andare avanti come si è fatto finora, è fisiologicamente impossibile. La terra è una, l’atmosfera è una, e i parametri di ricchezza del mondo occidentale e di nuovi paesi emergenti come la Cina non sono applicabili a livello globale. Nel vecchio continente giocoforza ci sarà un ritorno all’autoproduzione, ma secondo me non sarà un atto spontaneo com’è per noi amanti di queste zone, bensì una necessità. Ora devo andare, le mie capre mi aspettano».
Michela Capra

Info: Massimo Braghini, Presegno n.43, 25074 Lavenone (BS), Tel. 3248664141, info@famei.it, www.famei.it
www.presegno-bisenzio.it

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