L’arrampicata urbana nella Milano dell’Expo

1 maggio 2014

La proverbiale efficienza milanese sembra da qualche tempo trovare riscontro nel proliferare delle palestre indoor di arrampicata. E più di 15 mila, ad esempio, sono gli ingressi annui al solo nuovissimo Rock Spot di Milano Pero. Un boom inatteso, ma non troppo, che accomuna diverse generazioni. Così, finito il lavoro (chi ce l’ha), si salta sul motorino o sulla “rossa” del metro e si va a timbrare un nuovo cartellino tra queste pareti che si sviluppano su una superficie di 2500 metri quadrati, che dal 2013 hanno fatto rivivere all’insegna dell’arrampicata una fatiscente struttura industriale, come racconta l’architetto progettista Stefano Rigoni. Tutto è avvenuto in soli sei mesi, grazie a soluzioni tecniche sofisticate con positive ricadute anche nell’area a rischio di degrado in cui la struttura si trova (è stato tra l’altro lanciato un concorso tra i writer per le migliori decorazioni). Del resto, riaccendere la luce su questa Milano da Expo significa proprio cominciare dalle periferie. C’è tanto da fare perché tornino a essere luoghi vivibili, accoglienti, e perché no, belli, ripensati magari da grandi architetti.

E qui, in questa periferia milanese non si viene solo per arrampicare. La palestra offre spazi multifunzionali per eventi, conferenze, feste, proiezioni e organizza attività di accompagnamento e insegnamento in ambiente naturale con guide alpine, come testimonia Mirko Masé che ha dato vita all’iniziativa con il socio Paco Dell’Aquila mettendo a frutto la sua passione per l’arrampicata coltivata in passato, da buon milanese, sui bastioni di Porta Venezia.
E a proposito, quei conglomerati che collegano i bastioni di Porta Venezia con i sottostanti vialetti dei Giardini dedicati al giornalista Indro Montanelli fanno ormai parte della mitologia arrampicatoria meneghina. Per sua conformazione, Milano non offre spazi per le vedette alpine che hanno fatto la fortuna, a Torino, del Monte dei Cappuccini. Ma una certa voglia di evocare quell’orrido e quel sublime che spesso esprimono le montagne era sicuramente nelle intenzioni dell’architetto Giuseppe Piermarini quando, nell’Ottocento, proprio a Porta Venezia volle rendere pittoresco questo lato nord del parco con speroni rocciosi e gole solcate da cascate d’acqua.

Su questo angolo di Milano illeggiadrita da un ridicolo cocuzzolo boscoso denominato Monte Merlo con annessa e oggi dismessa balera, hanno dunque affilato i loro artigli generazioni di scalatori oggi emigrate sulle più confortevoli pareti indoor, lasciando che i conglomerati di Porta Venezia si accontentino di fare da muti testimoni delle fatiche dei jogger, qui piuttosto alacri.
Con quali risultati? «Oggi – spiega Eugenio Pesci, scalatore milanese di élite, storico e saggista apprezzato – esistono indubbiamente due strade maestre che conducono all’alpinismo: i corsi del Cai e delle guide alpine e, sempre più, le palestre indoor di città. Con questa avvertenza: sulla plastica tre su dieci dopo due mesi rinunciano, due si rivelano bravini, il resto si barcamena su 6a e 6b, sempre su plastica, e anche a livelli più modesti».
Conclusione? «Quantitativamente – puntualizza Pesci – si registra un aumento esponenziale di chi frequenta le rocce naturali. Qualitativamente tuttavia il peggioramento è sotto gli occhi di tutti. Inoltre, quello che io chiamo il desiderio delle rupi è sempre più condizionato, nella nostra società sicuritaria, dalla diffusa scarsa propensione per il rischio che in Grigna ha sempre fatto da deterrente, ma che oggi lo è ancora di più. Noto a questo proposito che chi sulla plastica ha raggiunto dei buoni risultati, davanti alla normale del Fungo si trova a disagio come se fosse in Himalaya».
Che cosa è cambiato nell’approccio all’ambiente alpino da parte degli urban climber? «Un tempo – dice ancora Pesci che alle Grigne, dove ha aperto vie estreme come la “Rebus” in Medale (con Ivan Zanetti) e che considera un laboratorio verticale per eccellenza, ha dedicato un volume nella collana Guide dei monti d’Italia Cai-Tci – i cittadini riportavano in città modelli di comportamenti alpini. Oggi al contrario, in un clima di omologazione, si tende ad andare in Grigna in un contesto atletico-edonistico, rinunciando a qualsiasi impulso creativo e portando con sé l’etica dominante nella fabbrica e nello smog padano: come se le rupi, come io stesso ho scritto ne La montagna del cosmo (Cda, 2000), appartenessero a una sterminata megalopoli. Così il paesaggio alpino si trasforma facilmente in uno sfondo per una disciplina che è praticata spesso su roccioni in pianura, sulle rive dei laghi e, meraviglia edonistica, al mare su solari scogliere».

Andrebbe dunque preso con le molle il leit motiv di un convegno organizzato in aprile dalla Commissione culturale del Cai Milano sulle palestre indoor considerate “paradisi non solo artificiali”. A dubitare che rappresentino “un nuovo cammino per soddisfare nelle città la domanda di montagna”, come risulta da un comunicato ufficiale della commissione, è Dolores De Felice, accompagnatrice giovanile nonché operatrice naturalistica del Cai, gelosa custode di valori consolidati nelle lunga militanza alla Società Escursionisti Milanesi dove si prodiga anche come organizzatrice di eventi culturali ed ambientali in qualità di responsabile della Commissione Culturale Scientifica sezionale. «Sapete che cosa mi colpisce, da quello che ho letto? Che le palestre artificiali debbano offrire una risposta in città alla domanda di montagna – si preoccupa Dolores -. Ecco, questo mi fa davvero venire i brividi. Perché rischiamo di andare nella direzione di montagna uguale palestra. E questo non è bello, e neanche rende giustizia a quelle pareti che, da sempre, hanno ben altro da offrire (e rispettare) e non sono principalmente dei muri di arrampicata per chi vuole sperimentare sé stesso e i propri limiti. Perdonatemi, ma se questa è la tendenza, non posso che dissociarmi».
Ma perché scoraggiarsi? Elena Buscemi, vicepresidente della Commissione Sport e Tempo Libero del Comune di Milano, è convinta, da appassionata, che la domanda di montagna sia in crescita in città e nell’hinterland e che un nuovo cammino vada intrapreso con il Cai, le guide alpine e i gestori delle palestre per elevare lo standard non solo tecnico di conoscenza della montagna.
Che lo scenario sia profondamente cambiato lo conferma Daniele Banalotti, direttore della Scuola Parravicini della Sezione di Milano del Cai. «E pensare – dice – che fino alla metà degli anni Ottanta era considerato blasfemo portare in palestra artificiale gli allievi dei corsi di roccia. Paradossalmente, posso dire d’incontrare più amici appassionati di montagna in palestra che alla sede del Club alpino».
Per soddisfare l’incontenibile passione verticale dei climber urbani, s’intende che Milano dispone di una decina di palestre private, magari un po’ in tono minore. Analoga la situazione in altri capoluoghi della regione.
Sull’opportunità che si delinei un nuovo cammino per soddisfare nelle città la domanda di montagna non può infine che concordare Luca Biagini, geologo e presidente delle guide alpine lombarde, che propone la sua visione della “palestra del futuro” quale luogo d’incontro di due anime: una più sportiva e una più culturale ed esplorativa. Ponte tra la città e la montagna, tra azione e contemplazione, la palestra indoor assumerebbe insomma il ruolo di un luogo privilegiato per la diffusione dei saperi relativi alle terre alte. Sarà davvero così?
Roberto Serafin

Info: www.rockspot.it

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