Il senso della natura nelle opere di Mario Rigoni

11 aprile 2018

Per Mario Rigoni Stern, nato e cresciuto nell’altipiano dei Sette comuni, la natura è sempre stata tema irrinunciabile, così come lo sono l’etica civile e la storia, fondamenta di tutta la sua opera. Riteneva giusta e necessaria sia una strenua difesa dell’ambiente sia una cura volta a far vivere e rivivere boschi, valli e montagne. L’uomo che distrugge e cementifica la natura recide le radici del futuro, e Rigoni lo spiegava richiamando queste parole dell’amato Leopardi.
Tutti i suoi libri, in diversa misura, raccontano e spiegano il mondo naturale, sia evocando storie vere o conosciute sia descrivendo fauna e flora con la competenza di chi li ha studiati con passione. La cura nella scelta dei vocaboli è propria del suo modo di scrivere – a chi gli chiedeva consigli per scrivere meglio suggeriva di utilizzare un dizionario dei sinonimi e dei contrari – ma nel raccontare la natura c’è qualcosa di più, una scelta di parole così specifiche e appropriate da rendere questo narratore davvero unico nel mondo letterario, lontanissimo, solo per fare un esempio, dal semplicismo narrativo di Jean Giono ne “L’uomo che piantava gli alberi”. I toni pacati delle sue pagine non vanno sottovalutati, contengono un richiamo appassionato e indignato a salvare quel che resta del mondo naturale.
Al mondo degli alberi ha dedicato nel 1991 “Arboreto salvatico”: ogni albero (castagno, larice, abete, frassino, ciliegio e altri) è un’opportunità per raccontare una storia che si intreccia alla descrizione scientifica con uno stile coinvolgente. “Arboreto” non è solo un libro, è il piccolo mondo arboreo che aveva realizzato nel corso degli anni attorno la sua casa, edificata ai margini del bosco, nell’altipiano dei Sette Comuni. Ogni anno era solito piantare uno o più alberi, che sono poi cresciuti e invecchiati con lui. La betulla, tagliata nel 2016 perché colpita da una malattia, insieme al larice fu l’albero preferito di Rigoni; la paragonava alla donna, elegante apparentemente fragile ma forte nel sopportare le bufere e gli sbalzi di temperatura; nel larice invece forse intravedeva se stesso, forte e resistente alle intemperie, poco esigente, con radici profonde che trattengono la terra, d’oro in autunno.
Quando parla del larice, come di ogni altro albero, Rigoni accosta con maestria conoscenza naturalistica e senso di meraviglia, creando un effetto evocativo e realistico. Citando un verso di Garcia Lorca («La pietra è una schiena per portare il tempo»), così chiude il capitolo di “Arboreto salvatico” dedicato al larice: «I larici che personalmente ammiro e fors’anche venero, sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni primavera quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all’autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d’oro le pareti».
Anche per quanto riguarda gli animali, il suo interesse, anche emotivo, arriva alle pagine dalla sua vita, dai cani che lo hanno accompagnato per boschi e montagne, accucciandosi accanto a lui davanti al focolare, ai galli forcelli e agli urogalli inseguiti nei giorni di caccia. Cimbro, uno spinone affettuosissimo, è stato forse il preferito; Rigoni ne ha scritto quasi una piccola biografia nel racconto “Il cane che vidi piangere”: «Dove avrei trovato ancora un cane simile? Così forte anche sul più aspro terreno, e sulla neve (…) e così affezionato, anche: tanto che i familiari dicevano: – Non sappiamo se è Cimbro che assomiglia a te o sei tu che assomigli a Cimbro». In una nota foto con lo spinone dal lungo pelo e il padrone con barba e baffi, che aveva trasformato in cartolina da inviare agli amici, Rigoni a volte si divertiva a scrivere nel retro, accanto alla dedica: «Io sono quello con il cappello».
Era un cacciatore di piuma, non di pelo, aveva quindi lo sguardo sempre volto in alto durante le cacce autunnali. E l’autunno era la sua stagione preferita, per il silenzio delle montagne, il profumo dei boschi, i colori degli alberi. In “Amore di confine” scrive: «Un bosco sotto la pioggia, con i colori dell’autunno, l’odore della terra e degli alberi, le corse dei caprioli, le beccacce tra i cespugli e le foglie morte sono tra le cose belle che la vita ci può dare». E così in “Stagioni”: «Tra i possibili modi di cacciare, questo d’autunno – con la pioggia e con un cane in luoghi che ben conosci, con un fucile che senti tua continuazione, e l’ora e la stagione, e i ricordi che ti accompagnano – ti fa intensamente partecipare a un mondo che senti esclusivamente tuo, che ti aiuta a capire le stagioni della tua vita che nessuno mai potrà rubarti».
In una lettera del 15 ottobre 1967 all’amico Daniele Ponchiroli spiegava: «Ora il bosco è troppo bello e le giornate troppo luminose: non è possibile stare in casa nelle poche ore che mi lascia libero l’ufficio; alla sera sono stanco per il camminare e il cacciare».
Secondo Rigoni, nella caccia, come più in generale nel confronto con la natura, si devono seguire delle regole, e bisogna cogliere l’interesse senza intaccare il capitale.
Non diversivo o divertimento, ma passione di attese notturne, di lunghe salite per montagne solitarie, di istinto nel cogliere la direzione di un volo. Dopo i lunghi anni della guerra e della prigionia, in un altipiano dove erano diffuse povertà ed emigrazione, la caccia era anche un buon modo per portare a casa cibo per la famiglia. E anche una maniera per dimenticare le tragedie viste e vissute: «Ricordavo sovente gli anni dell’immediato dopoguerra, quando andando a caccia per la montagna alla ricerca di un urogallo mi salvai dalla disperazione del Lager».
Anche in questo ambito Rigoni seguiva un preciso codice etico: «Quando si va a caccia – diceva – si deve lasciare l’auto dove arriva il postino, rispettare i tempi e i cicli di vita degli animali, averne una conoscenza non approssimativa».
Parlando o scrivendo di caccia citava spesso i racconti di Ivan Turgenev, di cui apprezzava lo stile chiaro e i valori umanistici degli scritti, condividendone altresì l’amore per la natura e il rispetto per gli animali.
L’inverno invece era la stagione delle letture e dello scrivere, molte sue opere sono nate in inverno, anche se Rigoni non rinunciava alla vita all’aria aperta: andava con gli sci da fondo, o camminava al mattino sulla neve dura, ammirando la sommità degli alberi più giovani e le bianche rotondità del suo altipiano. In un racconto, “Nevi” (“in Sentieri sotto la neve”), descrisse tutti i tipi di neve, ognuna tipica di un diverso momento del calendario, indicandone l’antico nome cimbro: brüskalan, la neve dell’inverno, swalbalasneea, la neve della rondine, che anticipa la primavera, kuksneea, la neve del cuculo, che arriva in aprile, e così via.
Non solo la neve, anche il vento non è mai lo stesso: «Il rumore del vento fra i rami, che cambia sempre ed è sempre nuovo e diverso da albero ad albero, una latifoglia ha un fruscio diverso da un larice e da un abete».
Gli animali possono essere salvifici anche durante la guerra, sfamando i soldati in Albania, quale ultima risorsa quando non è rimasto più nulla oppure come forza trainante di una slitta ricolma di feriti, come durante la ritirata di Russia. Esemplare la vicenda narrata nel racconto “Un samaritano all’inferno“ (in “Aspettando l’alba”), con l’alpino Romedio e la sua mula Brenta che salvano dalla morte per assideramento più di quindici soldati italiani. Il legame dell’alpino con la sua mula è affettivo e operativo, ognuno dei due dà forza all’altro.
In altri scritti, gli animali sono simbolo di speranza, di umanità da recuperare, come il capriolo Gretel di “Stagioni”. Nell’inverno del 1944 Rigoni, ormai da molti mesi prigioniero nei lager tedeschi, si trova in un campo situato tra le montagne della regione austriaca della Stiria. Oltre ai reclusi, utilizzati come schiavi in una miniera di ferro, i tedeschi tengono rinchiusa una femmina di capriolo, pensando di liberarla in primavera. Alcuni commilitoni, sotto i morsi della fame, pensano di ucciderla e cucinarla un giorno, ma uno di loro li ferma: «No, non dobbiamo ridurci a questo. Lasciamola vivere perché ci dà un po’ di gioia vederla qui intorno. In primavera la manderemo via nel suo bosco perché anche per noi verrà la libertà».
Quando la disumanità degli uomini sembra prevalere o dopo che una guerra ne ha dato esempi terribili, ecco che anche la compagnia degli animali, come la solitudine nei boschi, o il coltivare un orto, dà speranza.
Nel racconto “Alba e Franco” (in “Il bosco degli urogalli”) tre fratelli, ex partigiani, decidono di riprendere le abitudini di prima della guerra, tra queste la caccia. I loro segugi erano stati uccisi dai tedeschi, ed è necessario trovarne altri: la scelta cade su una cucciola ancora gracile che chiamano Alba, come auspicio di giorni migliori, e su un cane che decidono di chiamare Franco, perché sveglio e furbo. Con loro i tre fratelli ricostituiscono un piccolo nucleo di civiltà, e ricominciano a vivere seguendo il ritmo delle stagioni.
Urogallo è il nome antico con il quale Rigoni chiama il gallo cedrone, forse il simbolo di tutti gli animali della sua opera. Sin da ragazzo impara a riconoscerne il canto, ad ammirare il suo fragoroso sbattere d’ali, le sue danze d’amore, il suo battersi contro i cacciatori, per salvarsi. «Quando crebbi, al tempo della fioritura del larice l’udivo cantare nelle radure più remote da dove lanciava i richiami per le parate d’amore, e quando la bufera ci travolse nelle steppe in quell’inverno del 1942-43 mi sembrava a volte di sentire il suo richiamo» (da “Il libro degli animali”). Il gallo cedrone è anche al centro di uno dei racconti più belli, “Lettera dall’Australia”, pubblicato ne “Il bosco degli urogalli”: una storia di rinascita, fisica e spirituale, che racchiude buona parte dei temi cari a Rigoni: la guerra, le montagne, la caccia, il senso dell’amicizia.
Ci sono un manoscritto e un luogo di Rigoni che possono dare il senso del connubio storia-natura rinvenibile in tutte le sue storie. Mi riferisco alla prima pagina del menabò nel quale scrisse la prima stesura del racconto “Un ragazzo delle nostre contrade”, dove narra la vicenda di Rinaldo Rigoni detto ‘il Moretto’, giovane partigiano di Giustizia e Libertà, ucciso dai nazifascisti subito sotto gli spalti di Cima Isidoro. In quella pagina Rigoni scrive in alto una dedica “Ai compaesani delle contrade a nord, che in anni bui lottarono uniti per la libertà di tutti”, più in basso incolla con l’adesivo un mazzetto di stelle alpine, aggiungendo sotto “Raccolte dove è caduto il Moretto”.
E poi c’è un luogo, la lapide dei partigiani, a circa un chilometro dalla casa dello scrittore: si tratta della passeggiata che Rigoni amava fare con il suo cane prima dell’imbrunire, salendo sulla mulattiera. Quando questa entra nel bosco di larici e abeti si arriva quasi subito in una radura, lì si può vedere la lapide con inciso il nome di Giuseppe e Rinaldo Rigoni, prima giovani malgari, poi alpini, poi partigiani, e una frase: “Che su queste montagne caddero sotto il piombo nazifascista, per la libertà. I compagni a perenne ricordo. Tu che passi sosta e medita”. Durante certi tramonti i rami degli alberi disegnano ombre mobili sulla pietra, nella radura solo vento e silenzio.
Giuseppe Mendicino

Bibliografia essenziale per approfondire il rapporto di Mario Rigoni Stern con la natura:
Il bosco degli urogalli, Einaudi, 1962
Uomini, boschi e api, Einaudi, 1980
Amore di confine, Einaudi, 1986
Arboreto salvatico, Einaudi, 1991
Sentieri sotto la neve, Einaudi, 1998
Inverni lontani, Einaudi, 1999
Aspettando l’alba e altri racconti, Einaudi, 2004
Stagioni, Einaudi, 2006
Mario Rigoni Stern. Il coraggio di dire no. Conversazioni e interviste 1963-2007. A cura di Giuseppe Mendicino, Einaudi, 2013
Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri, di Giuseppe Mendicino, Priuli & Verlucca, 2016

Commenti: 1 commento

  1. Catherine scrive:

    Bel testo per trascrivere tutte le emozioni, le sensazioni, che costruiscono l’opera di Mario Rigoni Stern. Penso anche a Mauro Corona che fa parte anche di questi grandi “intenditori” della natura.

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