Il ganassa

27 febbraio 2014

L’alpinismo, utile come il lavoro secondo Guido Rey, nipote dello statista Quintino Sella, poteva non eleggere la laboriosa Milano come sua madre nobile? Torino, che ha tenuto a battesimo il Club Alpino Italiano, godrà pur sempre della vista di 450 chilometri di catena alpina. Ma Milan l’è un gran Milan e all’ombra della Madonnina cova inesausti ardori alpinistici. E se gli ingombranti grattacieli della nascente CityLife glielo consentono, nelle giornate di foehn lo spettacolo delle Alpi è anche qui incomparabile, come notò un certo Leonardo Vinci che, salendo tra le guglie del Duomo, schizzò da par suo le Grigne con annesso Resegone.
È un mondo a parte, anche qui nella gran Milan, quello degli alpinisti. Con i loro vezzi e una vena autoironica che sgorga da un ceppo antico: quello dei Glasg, gruppo di alpinisti “senza giudizio”, all’inizio del secolo scorso, refrattari alle guide alpine. Un esempio? Carletto Negri, inflessibile direttore della scuola d’alta quota Parravicini, fustigava scherzosamente gli allievi con la frase “semm minga chi per divertiss” pronunciata a titolo di sprone nei momenti in cui la montagna si opponeva. È inoppugnabile, in montagna talvolta c’è poco da divertirsi.

Quanto agli stereotipi, quello più accreditato all’ombra della madonnina riguarda in verità “el milanes in mar” che si suppone piuttosto imbranato quando lascia la terraferma. E che assume “una faccia un po’ così” dopo che è stato a Genova, come celia il cantautore Paolo Conte. Poi venne un milanese di nome Giovanni Soldini a porre, con le sue adrenaliniche traversate oceaniche in barca a vela, il nome di Milano sui gradini più alti della marineria internazionale.
C’è stereotipo e stereotipo. Agostino Da Polenza, manager alpinista bergamasco, ha teorizzato in un libro scritto con Luca Gambirasio la montagna come scuola di management dove si respira più che altro l’atmosfera di piazza Affari. Bruno Bozzetto, emulo milanese di Walt Disney, individuò alcuni stereotipi in un librino intitolato Viva gli abominevoli sciatori, mettendo in luce forme di nevrosi tipiche della società dei consumi: nucleo, questo, della poetica bozzettiana.

Stereotipo per stereotipo, chi faceva “quater pass” in Galleria per recarsi al Cai o alla Sem (Società escursionisti milanesi) della montagna apprezzava in tempi ormai remoti l’orrida bellezza determinata da spaventose pareti, ansie tormentose, temerari scalatori che domavano certe gole paurose del gigante alpino. Lo stesso Walter Bonatti, che le nebbie meneghine le ha respirate a pieni polmoni ai tempi della sua collaborazione con Mondadori, rappresentava uno stereotipo, come giustamente osserva Enrico Camanni, relegando l’alpinismo in un mondo immaginario fatto di eroi e di pazzi, insomma di gente diversa. Ma il suo stereotipo continua a far cassa a giudicare da certe recenti serate all’Oberdan dove i milanesi si sono affollati per rivedere sullo schermo il Walter con la sua amata Rossana.
Orrida bellezza? Avevano ben altre bellezze per la testa gli enfant gatè milanesi come dimostrano le Vacanze di Natale consumate dai riccastri a Cortina d’Ampezzo ed evocate sugli schermi nel 1983 dai fratelli Vanzina nell’omonimo cinepanettone diventato chissà perché un cult. Qui lo stereotipo del milanese in montagna è rappresentato dai Covelli, una famiglia di ricchi costruttori edili, tra cui spiccano l’avvocato Giovanni, il cumenda capofamiglia arricchito e superficiale.
Tutti così i milanesi in montagna? Nossignore, l’alpinista medio milanese sembra trovarsi meglio tra le piodesse striate di lichene della Val Masino che nei ritrovi mondani di Cortina d’Ampezzo. La sua vocazione a mettersi nei guai con scarso o nullo giudizio trova esempi luminosi: accademici del Cai come il conte Leonardo Bonzi, spericolato aviatore che trasvolò l’Atlantico con il fragile “Angelo dei bimbi” e si capottò davanti al Dente del Gigante. O tostissimi imprenditori come Guido Monzino, alpinista che Cassin definì ingenerosamente “all’acqua di rose”. O assicuratori diplomati in ragioneria come Ambrogio Fogar navigatore sopraffino, maratoneta, alpinista legato alla corda del prediletto Graziano Bianchi meritevole di avere restaurato la torre Campari al Parco Sempione.
La storia procede senza troppi salti in questo piccolo mondo antico dell’alpinismo meneghino. Un giovane geologo milanese, Franco Michieli, con la sua antiquata aria da sognatore barbuto, ridisegna dagli anni Ottanta i confini dell’avventura mettendosi alla prova in grandi traversate, rigorosamente a piedi, delle maggiori catene montuose d’Europa. Ma, a proposito, chi ha detto che è principalmente la barba a connotare il tipo ascetico-avventuroso? Alessandro Gogna, alpinista-guru che ha messo radici sui Navigli, mi stupì quando lo conobbi a un convegno presso la Cassa di Risparmio: impeccabile rasatura, giacca di tweed di buon taglio, accento spiccatamente genovese. Niente a che vedere con il rude Riccardo Cassin che Fosco Maraini definì giustamente un uomo-rupe.

Non era un uomo-rupe nemmeno il mite Rolly Marchi che ha animato a lungo, fino alla scomparsa, gli ambienti sciistici e arrampicatori milanesi, né lo è mai stato il gioviale Camillo Onesti, leader del gruppo alpinistico Fior di Roccia, coach della valanga rosa di fondo alle Olimpiadi di Lillehammer, tra i padri della Stramilano. Da milanesone un po’ ganassa, Camillo esibiva decine, centinaia di cime conquistate, anzi fatte. Durante le escursioni le indicava orgogliosamente una per una con il fatidico ritornello “l’u fada, l’u fada”. Fare una punta, come spiega l’insigne Massimo Mila, è tipico dell’alpinista che “crea la montagna nell’atto stesso di dominarla”. E forse questa vocazione al dominio è un altro dei requisiti dell’alpinista milanese di cui ho indicato alcuni stereotipi… ma forse sarebbe meglio dire alcuni tipi, omettendo lo stereo. Proprio dei bei tipi.
Roberto Serafin

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