Il destino viene dall’alto

5 marzo 2017

Alla fine dello scorso novembre il Piemonte è stato flagellato per tre giorni da forti nubifragi e allagamenti, culminati in frane ed esondazioni. In alta Val Mastallone, in provincia di Vercelli, il sindaco di Cervatto mi aveva rassicurato sulle condizioni delle strade e sul rischio di frane: potevamo salire. Così il nostro laboratorio universitario è iniziato.
Quella valle la conosco da tempo, per la mia misantropica ricerca di luoghi poco battuti, dove andare a camminare in pace col mio cane, senza il rischio di incontrare comitive o l’obbligo di guinzaglio e museruola. Sui monti di Cervatto questo rischio non si corre quasi mai, e se si incontra qualcuno di solito è Agostino, 70 anni vissuti tra le cucine dei grand hotel stranieri e gli alpeggi del Pizzo Tracciora. O sua moglie, Ornella, che porta al pascolo le ultime cinque pecore della vallata.
Cervatto è un comune tra i più spopolati delle Alpi: oggi conta poco più di quaranta residenti, ma in realtà, durante l’inverno, quanti si fermano stabilmente in paese sono meno della metà. Poco più sotto, a un chilometro di strada, Fobello (il “faggio bello” dialettale) è l’altro comune alla testata della valle. Qui gli abitanti ufficiali sono un po’ più di cento, ma vale il discorso appena fatto circa quelli reali e permanenti. Un tempo, quando l’industrializzazione trainata da Torino animava la pianura e le basse valli piemontesi, questa era stata battezzata la “Conca di Smeraldo”, per il verde dei suoi boschi e dei suoi prati: qui si era sviluppato un turismo altoborghese, con ville in stile liberty o eclettico, fatte costruire da famiglie quali i Borsalino, i Musy, i Koelliker, i Lancia (Vincenzo, fondatore della casa automobilistica, era nato a Fobello). Ma la belle époque della villeggiatura nelle località montane aspre e selvagge – secondo quello spirito tardo romantico che cercava il sublime fra strapiombi, torrenti e foreste – è presto finita, anticipando la chiusura delle fabbriche di pianura. E a Cervatto e Fobello è iniziato un lungo declino.

Oggi l’alta valle – di una bellezza mai addomesticata – è costellata di alpeggi abbandonati, baite in disarmo, pascoli infestati dalle felci e boschi che vanno inghiottendo quelli che un tempo erano i coltivi: un paesaggio ormai tipico, purtroppo, qui come in larga parte delle Alpi occidentali. E sebbene non manchino le attività economiche e produttive che resistono, o anche quelle nuove che cercano di farsi spazio, la sensazione è quella di un diffuso scoramento, di una fiducia calante nelle proprie possibilità da parte della popolazione che è rimasta a vivere in un territorio nascosto, di retroscena.
Questa perlomeno è la percezione che hanno avuto della valle e della sua gente i miei studenti, tredici tra maschi e femmine, tutti laureandi in Ingegneria Edile-Architettura all’Università di Pavia. Tredici quanti hanno deciso di partecipare ad un laboratorio di ricerca condotto con approccio sociologico (loro sono ingegneri, innanzitutto…), in una valle mai sentita nominare, a proprie spese in quanto a vitto, alloggio e trasporti. E nei giorni meteorologicamente peggiori di tutta la stagione. Ma evidentemente animati da qualcosa in più che l’aspirazione ad un paio di crediti formativi: la sfida rappresentata dalla montagna, quella non turistica, nella stagione morta, dormendo in uno spartano ostello parrocchiale (la casa alpina Tabor), nella frazione più alta del paese. La curiosità di conoscere un modo di vita altro, a sole due ore di auto da Pavia e a pochi chilometri dalle località dei caroselli sciistici, come Alagna Valsesia. Lo stimolo alla creatività, costituito dalla possibilità di ideare e progettare interventi di recupero architettonico, funzionali ad una visione di sviluppo locale slow, sostenibile, vicina ai concetti di sobrietà, forse anche di decrescita.
Per tre giorni, sotto la pioggia battente, i ragazzi e le ragazze hanno fatto rilievi a vista, visitato e fotografato borgate e singoli edifici, percorso sentieri divenuti torrenti (qualcuno in scarpe da ginnastica..), parlato con gli amministratori locali, con i residenti, con i titolari delle realtà produttive e commerciali del territorio (graditissima l’ospitalità offerta, con assaggi dei diversi prodotti, dalle marmellate ai biscotti, fino al pane e ai formaggi). Abbiamo tenuto un incontro pubblico – grazie alla disponibilità di Federica, la giovane sindaca di Cervatto – a cui hanno partecipato una cinquantina di persone (un numero elevatissimo data la popolazione totale dei due comuni!): gli studenti hanno esposto la loro visione della situazione locale, i presenti hanno dibattuto animatamente, il collega Giampiero Lombardi (agronomo dell’Università di Torino) ha spiegato i vantaggi della legge regionale sull’associazione fondiaria per un territorio frammentato tra innumerevoli proprietà, tutte o quasi in abbandono. Poi, sempre sotto la pioggia, tutti in trattoria, come di prammatica (e qualcuno degli studenti si è spinto a Varallo Sesia in seconda serata, alla ricerca di improbabili discoteche).

Dal punto di vista progettuale, il laboratorio si è concentrato dunque sul recupero funzionale di due edifici singoli e di due piccole borgate, in condizioni di abbandono o di sotto-utilizzo: un ex albergo, una casa rurale, una frazione a quota più alta, raggiungibile in automobile, e un’altra a cui si accede invece solo a piedi. Per la schedatura e l’inquadramento generale degli oggetti di intervento, ci siamo appoggiati alla metodologia sviluppata dall’Istituto di Architettura Montana del Politecnico di Torino, grazie anche ai preziosi suggerimenti dell’amico Antonio De Rossi.
Le idee di recupero proposte e sviluppate dagli studenti hanno avuto come fulcro la valorizzazione delle eccellenze alimentari locali (pane, dolci, formaggi, oggi venduti in pianura e anche esportati all’estero) e la riscoperta del paesaggio culturale e naturale dell’alta valle (parzialmente ricompreso nel Parco dell’Alta Valsesia), nella direzione di un nuovo turismo slow, in grado di favorire la permanenza sul territorio della popolazione rimasta e l’insediamento, in prospettiva, di attività economiche da parte di giovani e “neomontanari”.
I quattro progetti sviluppati sono stati dunque quello di una “Casa delle eccellenze”, che vede il recupero dell’ex albergo Stella di Fobello (chiuso da anni), per farne uno spazio di degustazione, espositivo e laboratoriale, finalizzato ad ospitare le quattro piccole imprese alimentari locali e ad attrarne altre in futuro. Un secondo edificio oggetto di progettazione è stato una casa rurale in frazione Belvedere, ripensato come piccolo centro di studio e ricerca sulla flora e sulla fauna locali e sull’ecosistema della valle, in collaborazione con l’Università, secondo una logica di trasferimento delle conoscenze dal settore scientifico a quello produttivo e conservativo. Un terzo progetto riguarda la creazione di un osservatorio sulla fauna selvatica, posizionato sul colle più panoramico della vallata, con postazioni e torrette in legno, in prossimità di una zona fortemente frequentata da ungulati (cervo e camoscio) e da numerose altre specie protette. Infine, un’ulteriore progettazione ha riguardato la frazione Oro Negro di Cervatto – oggi totalmente disabitata ma di evidente pregio architettonico – ripensata nel segno dell’agricoltura multifunzionale di montagna (segale, erbe officinali, orticoltura, …) e del correlato sviluppo di una ricettività diffusa e sostenibile.

Il filo conduttore che lega i quattro progetti sviluppati dal laboratorio è dunque quello della lentezza, della resilienza, del recupero innovativo delle tradizioni produttive locali, della messa in rete delle eccellenze presenti sul territorio e dell’attrattività rispetto a flussi turistici di dimensioni contenute, caratterizzati da persone in cerca di qualità ambientale e di soggiorni nel segno della natura. Sottesa a questa concezione di sviluppo c’è l’idea che si debba investire sul recupero del patrimonio architettonico locale e sul paesaggio culturale montano anche e soprattutto a fini identitari e relazionali: la creazione di nuovi land mark o la reinvenzione di elementi paesaggistici oggi in declino può infatti contribuire al superamento del senso di sfiducia che si è alimentato con l’abbandono dei luoghi avvenuto nei decenni scorsi; può favorire la costruzione di capitale sociale nelle comunità rimaste, intorno ad una proposta condivisa di rilancio produttivo e turistico della valle; può attrarre nuove risorse dall’esterno, in termini di nuovi abitanti e imprenditori, a fronte di prospettive innovative, in grado di intercettare i finanziamenti pubblici per la montagna oggi accessibili a chi è in grado di coniugare turismo e green economy, secondo la logica della smart valley.
Le ragazze e i ragazzi del laboratorio hanno chiuso la tre-giorni in Val Mastallone salendo alla frazione Tapponaccio, abbandonata dagli anni Sessanta: una pasta al pomodoro cucinata da Agostino nella casa in cui è nato e dove viveva da bambino (due ore tutti i giorni, per scendere alla scuola di Cervatto e tornare a baita). Le panche davanti alla stufa valsesiana, la stessa di cinquant’anni fa. Un bottiglione di rosso da due litri. La nebbia che saliva poco a poco, a scoprire finalmente la vetta del Pizzo Tracciora. La presenza degli studenti, temporanea e quasi aliena in quei luoghi, ha sfidato, anche se per poco, le retoriche della marginalità, del “lassù gli ultimi”. E mi ha fatto venire in mente una frase del libro “Le otto montagne”, di Paolo Cognetti: «Se guardi a monte, come fanno i pesci, che mangiano con il muso rivolto alla corrente, il futuro ti viene incontro e alle spalle hai l’acqua passata. Il destino viene dall’alto, dalla montagna».
Andrea Membretti

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