I beni comuni sono includenti o escludenti?

3 aprile 2019

Il tema dei beni comuni evoca, per una costitutiva affinità, quello dei beni collettivi. Tale convergenza risulta a maggior ragione particolarmente marcata quando l’ambito considerato è costituito dalle terre alte, ossia quei territori in cui con maggior frequenza sono sopravvissute istituzioni di proprietà collettiva altrove perite nell’urto con la modernità. Esse non solo assumono nomi differenti – Regole, Vicinie, Comunanze, Consorterie, Comunità – ma custodiscono, nei propri statuti, assetti alquanto differenziati sia per quel che riguarda i criteri che determinano l’appartenenza alla comunità proprietaria, sia per quel che concerne la modalità di gestione dei beni collettivi.
In estrema sintesi vi è una proprietà collettiva quando un determinato bene è imputato a un gruppo. La partecipazione a tale formazione sociale dipende dal criterio che si è consolidato in ogni singola esperienza storica, anche se, quando osserviamo il mondo delle proprietà collettive, risulta prevalente la discendenza, il più delle volte di tipo patriarcale. La condizione di appartenente al gruppo, che si “eredita”, implica la titolarità di un diritto di natura proprietaria che ha ad oggetto il bene collettivo, che a sua volta è amministrato, secondo le norme statutarie e consuetudinarie, da un ente – la Regola, la Vicinia, la Comunanza – quale rappresentante del gruppo. Il bene collettivo può essere gestito secondo schemi molto differenti. Esso può essere fruito direttamente dagli aventi diritto, può essere assegnato temporaneamente e in via esclusiva a tutti o ad alcuni comproprietari, oppure può essere sfruttato economicamente dall’ente che rappresenta il gruppo, con la ripartizione degli utili generati.
Le consuetudini della Regola feudale di Predazzo, per esempio, attualmente prevedono che possano divenire Vicini (o comproprietari) della Regola solo gli uomini discendenti dalle 71 famiglie “originarie” menzionate nello statuto del 1608, approvato dal Principe Vescovo nel 1615. In tale frangente il Monte Vardabio, che originariamente poteva essere utilizzato universalmente dagli uomini della comunità, divenne l’oggetto di godimento esclusivo riservato solo ad alcuni, con conseguente esclusione di chi sarebbe successivamente divenuto parte della comunità paesana. Il bene collettivo viene attualmente gestito dalla Regola che ripartisce gli utili tra i Vicini. Lo status di Vicino prescinde dalla residenza nel territorio comunitario, tanto che nel libro delle matricole compaiono i discendenti di quelle famiglie emigrate da generazioni in ogni dove.

Ma non tutte le proprietà collettive hanno conosciuto la “chiusura” del gruppo. Lo Statuto della Magnifica Comunità di Fiemme attualmente in vigore prescrive che possano divenire Vicini non solo i figli di Vicini, senza discriminazione di genere, ma anche quei cittadini italiani che risiedono, per un periodo di 25 anni, nei Comuni che costituiscono la base territoriale della Comunità. Seppur lo stato di Vicino non si perda che con il decesso, l’esercizio dei diritti è possibile solo a condizione che il Vicino risieda effettivamente nel territorio comunitario. La gestione economica del patrimonio collettivo viene attuata dalla Magnifica e gli eventuali utili non sono ripartiti, ma destinati al perseguimento di obiettivi di coesione sociale. Il modello cui si ispira lo Statuto della Magnifica è quello dell´uso civico, ossia il diritto imputato a chiunque risieda in un determinato comune o frazione di usare alcuni beni fondiari in proprietà pubblica o privata.

Le differenze che esistono all’interno del mondo delle proprietà collettive, e che lo rendono più o meno simile al modello dell’uso civico, sono per lo più addebitabili a varabili storiche che segnarono l’evoluzione di ogni istituzione nel rispettivo contesto politico-sociale. Tra queste variabili certamente vi è anche la mancata reazione dell’ordinamento giuridico al fatto che un gruppo ristretto si attribuì un diritto esclusivo su beni che prima erano oggetto di godimento da parte di tutti gli abitanti di un luogo. Il confronto tra gli statuti delle proprietà collettive chiuse, come la Regola Feudale di Predazzo, o quelle aperte ai nuovi residenti, come la Magnifica Comunità di Fiemme, indica chiaramente, in termini concettuali, due modelli istituzionali contrapposti: un primo fondato su dinamiche escludenti, un secondo basato su di un principio di inclusione sociale.
La materia delle proprietà collettive, che vengono rinominate in domini collettivi, è stata recentemente riformata con legge 168/2017. La Legge ha sancito il pieno riconoscimento tanto del dominio collettivo quale “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie”, quanto dei diritti individuali “preesistenti allo Stato italiano”. Le formule utilizzate indicano chiaramente che il presupposto che giustifica il riconoscimento dei domini collettivi risiede nella loro storicità. L’adozione di un approccio storicistico ha come conseguenza che le dinamiche da cui sono scaturiti i domini collettivi sono esaurite e irripetibili. Di qui l’impossibilità di costituire, ex-novo, un dominio collettivo.
È utile ricordare le ragioni per le quali la Corte costituzionale rilevò un interesse nazionale alla conservazione degli usi civici e degli assetti proprietari collettivi. Essi permettono di dare continuità a quell’interazione tra la comunità locale e il rispettivo territorio da cui nasce il paesaggio, come prodotto dell’azione antropica. L’uso civico inoltre permette una gestione del territorio partecipata, democratica e decentrata. Tale funzione viene meno nel momento in cui la compartecipazione alla gestione e alla “creazione” del paesaggio sia riservata ad un gruppo ristretto, non coincidente con la comunità locale, in ragione di un privilegio. Tale termine ha suscitato, nel dibattito pubblico recente, un’indignazione sincera che però si accompagna a un atteggiamento tollerante sia verso gli equilibri diseguali che innervano il mondo nel quale si è quotidianamente immersi, sia perché di tale privilegio si è i primi beneficiari.
Vi sono molte ragioni che avrebbero dovuto indurre il legislatore a intervenire sulla materia dei domini collettivi prescindendo da una prospettiva storica e operando una differenziazione qualitativa tra le varie istituzioni sulla base dell´assetto più o meno includente. È quanto mai attuale l’esigenza di promuovere la costituzione e il rafforzamento di soggetti istituzionali che facciano fronte al ritrarsi del pubblico dall’assunzione di un ruolo diretto nell’erogazione di beni e servizi. Ed è quanto mai attuale la necessità di rifondare le ragioni ultime di un patto sociale che costruisca sui beni comuni un progetto aperto e inclusivo di “bene comune”, fondato sulla concreta vicinanza di vita che si consolida nell’abitare un territorio. La riforma dei domini collettivi non ha raccolto questa sfida, che avrebbe avuto come fine ultimo quello di trasformare in beni comuni non solo i beni collettivi in quanto storicamente oggetto di una originaria appropriazione, ma tutti quelli che ogni comunità territoriale dovrebbe poter individuare, attraverso procedimenti pubblici deliberativi, poiché necessari per l’esercizio di un diritto fondamentale alla vita.
Eugenio Caliceti, Università degli Studi di Trento

Commenti: 1 commento

  1. Rovarey Enrico scrive:

    Una rete di canali destinati ad irrigare orti, aree verdi e terreni agricoli veri e propri, potrebbe rientrare tra i beni collettivi?preciso che si tratta di una rete di cui si ha traccia fin dal XVI secolo; attualmente è gestita dal Comune e da un consorzio di miglioramento fondiario.

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