29 agosto. Il paese si svuota

11 settembre 2018

I villeggianti tornano a valle… come in una transumanza bizzarra: Berceto guarda le macchine partire verso valle. La strada principale del borgo si svuota in una processione verso i parcheggi, si toglie l’area pedonale rimasta tale per tutto il mese di agosto. Basta spostare una transenna. La strada principale del paese (dalla Marina all’attuale piazza del mercato) è ritornata ad essere vuota. Adesso passano poche persone in modo sparso. La maggior parte anziani. Vanno lentamente.
Due giorni fa invece un gran brulichio estivo, quello che rendeva difficile il passaggio tra un saluto e un arrivederci, tra un tavolino del bar e l’altro, tra un ritmo di cammino e l’altro, tra i camerieri pazienti e spazientiti che passano con i vassoi colmi da un lato all’altro della piazza, facendo la gimcana tra la gente. Adesso si passa con le mani in tasca, invece, in due o tre, o quattro. Ci si guarda in faccia. Lentamente. Ci si ferma poco. Si va solo più lentamente. Il lavoro è già calato. Si riprende il respiro. I negozi si sono già svuotati. I ritmi sono già quelli dell’inverno. I ritmi sono quelli di prima, di prima che iniziasse l’estate.
Oggi è la festa della Madonna della Guardia del Passo della Cisa. Passo al quale sono affezionata perché lì stanno le mie origini, ma al quale sono affezionati tutti i bercetesi. D’altronde se non fosse per questa storica strada, lo stesso borgo non esisterebbe o avrebbe sicuramente meno importanza.

Al tempo dei romani sono attestati qui passaggi di merci e genti: gli imperatori lo sceglievano perché passo più facilmente percorribile dell’intero varco appenninico verso il mare. Napoleone e Maria Luigia l’hanno reso tale. E poi, è stato un solco con il gesso rosso sulle mappe militari: la linea gotica segnava i luoghi dei conflitti e degli scontri al di qua e al di là di un territorio controllato o liberato.
La festa del Passo della Cisa riporta tutti insieme nei pascoli, dove non meno di settant’anni fa si portavano le vacche dai borghi sottostanti a pascolare. E in questo particolare giorno, invece, solo persone vestite bene, per il giorno di festa, portavano le torte per mangiare e le coperte per coricarvisi sopra e trascorrere così la giornata mangiando e chiacchierando. Salivano dalla Lunigiana le donne con le ceste piene di torte d’“erbi”, salivano da Berceto (dall’altro versante) bercetesi e villeggianti per respirare aria buona della Cisa. Un’unica bancarella: quella delle collane di nocciola. Così raccontano i più anziani.
La festa della Cisa è quella che ha dato motivo di licenza a mio zio militare, che in seguito all’8 settembre 1943 si è dato alla macchia, andando a formare i primi gruppi di resistenza partigiana in questa parte di Appennino. Ha sempre segnato il mio anno, come il 31 dicembre.
Adesso invece come dappertutto, si è mercificata la festa. C’è ancora lo stare insieme nei prati, con le torte nei box frigo. Ma c’è anche il giro alle bancarelle (oggi diventate molte), quando ci si annoia tra una partita a carte e una partita di pallone, si va a vedere qualche mercanzia di bassa fattura cinese, ma anche qualche maglione per l’inverno che arriva, quelli rari, di lana buona, che se guardi bene ci sono ancora.
E la Madonna, che si porta in processione a metà mattinata, spezza il caos ricordando a tutti perché si è lì. La Madonna della Guardia è un culto ligure, portato alla Cisa dalla famiglia Fasci nel secondo decennio del secolo scorso. Abita lì, in quella chiesetta di arenaria fatta con le pietre squadrate e decorate. Una chiesetta gotica che sta lì su quel cucuzzolo come una ciliegina su una torta a scale.
Si sta nei pascoli a guardare i crinali dei monti dolci e Berceto lontano, pensando che anche quest’anno è arrivata la fine dell’estate. La fine di agosto, inizi settembre, non segna solo un cambio di stagione, ma è proprio un cambio di abito, un cambio di modo di essere e di sentire, di sentirsi. Un cambio che prende nel più intimo le persone che vivono in paese. Non quelle che “stanno”, ma quelle che ci vivono. Abbiamo la consapevolezza che i pochi che restano fanno parte della famiglia. I tanti amici frequentati in questi due mesi estivi appena trascorsi, invece, stasera scendono in città. Li rivedremo in gran parte a Natale, ma a Natale non restano che pochi giorni. In estate invece si esce insieme, ci si ritrova per caso nella piazza principale. Poi si decide che cosa fare: un salto al mare a mangiare il pesce, un concerto in paese, una sagra in Lunigiana. Si fa il pieno di socialità, perché tanto sappiamo che non durerà per sempre. Ci si ferma per due chiacchiere o un aperitivo, fino a che si può. Si scambiano informazioni sulla città e sul paese. Con loro si parla di città e di paese. Spesso.

Penso che vi sia un po’ di invidia reciproca in queste chiacchiere. Quell’invidia che nasce dall’ignorare gli aspetti negativi, ma che fa vedere solo gli aspetti positivi delle vite altrui, senza avere una visione complessa e complessiva della cosa. Noi qui ci lamentiamo che rimaniamo soli. Loro lì che si lamentano del fatto che devono tornare ad una vita più stressante, come se quella che facciamo noi qui in montagna fosse fatta sempre e solo di vacanza. Durante la loro vacanza pensano che i montanari lo siano sempre… in vacanza. Come se noi lo stress non lo provassimo mai, come se esser circondati dai monti e dalla bellezza del verde non possa fare esistere lo stress nelle persone. In parte hanno ragione, ma solo in parte.
E alla fine forse ci si sente fortunati così. D’altronde è vero che l’inverno in montagna è duro, ed è anche vero che si è in pochi. Ma non è poi così vero che si soffre la solitudine. Alcune volte ho sentito dire dagli amici di città: “Da noi c’è più gente ma alla fine non parli con nessuno, nemmeno con il tuo vicino nello stesso condominio”. Alla fine penso che la solitudine, sia qui in montagna che laggiù in città, ce la siamo creata, anche cercata, con l’andare del tempo e con le nostre stesse mani. Credo che sia un male in special modo degli ultimi decenni, sia in montagna che in bassa valle.
Alla fine mi pare un alveare il mio paese. La quantità di insetti dentro che brulicano d’estate, e lo sciamare delle persone alle porte dell’autunno. Non siamo gli unici esseri viventi che vivono la casa svuotata delle teste, dei sogni, delle chiacchiere, dello stile, dei modi di fare delle persone di città che passano l’estate qui e che poi di città non sono, in fin dei conti. Ci si sentono soltanto, perché hanno quasi tutti origine in montagna. È questa la cosa più ironica che mi viene da pensare mentre sto seduta qui, nei pascoli della Cisa. Penso che le persone che ho incontrato e salutato oggi tra i banchi, la musica, la processione che accompagnava la Madonna, le macchine… alla fine sono quasi tutti di qui. Ed è qui che tornano. Tornano a casa loro, con la paura di dimenticare i nomi e i cognomi dei paesani. Alla fine i legami parentali tra la gente di paese, li conoscono meglio loro di noi: hanno paura di perdersi, hanno paura di perderci.
Sempre più persone vogliono ri-vivere quel tempo qui in montagna, nella tranquillità di lasciare i figli finalmente liberi di scorrazzare per la piazza del paese, o nelle stradine a giocare a nascondino. Genitori che non hanno notizie dei figli per pomeriggi interi, ma che sono tranquilli perché sanno che sono in paese o al massimo nei campi più sotto a dare la caccia a qualche animaletto. In città non se lo potrebbero mai permettere. Qui invece si.
Ci si è ormai resi conto della bellezza delle terre vicine, perché non è più necessario pensare di andare a Ibiza o Maiorca, perché il bello e l’avventura, questi nostri “ex territori”, la offrono sempre di più: trekking, e-bike, equitazione e bagni al fiume. Non ci si annoia. O meglio, non ci si annoia più. E questi “ex territori” stanno piano piano conquistando l’identità di “nuovi territori”. Osservando il cambiamento, attendiamo di vedere cosa hanno in serbo. Sono certa che ci stupiremo di noi stessi e della nostra capacità di fare rete, con le valli e con le città.
Maria Molinari

Commenti: 1 commento

  1. Marisa Tibola scrive:

    Avrei potuto scriverle io, queste cose. Se avessi trovato le parole. È davvero così. Grazie Maria, perché la montagna del “fuori stagione” o della “stagione morta”(sigh!!) è la stessa in tutti i paesi di montagna.

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