Gli immigrati nella montagna lombarda

1 febbraio 2016

Sul piano mediatico il tema delle migrazioni, oggi incentrato sul fenomeno dei profughi, continua a essere giocato sulle paure. Eppure la società italiana è stata in grado di assorbire, certo non senza fatiche, oltre cinque milioni di immigrati giunti in Italia in poco più di un ventennio. E lo ha fatto senza creare quelle grandi concentrazioni urbane altrove problematicamente presenti in altre zone d’Europa, bensì diluendo una grande massa di persone venute da tutto il mondo in maniera abbastanza uniforme su tutto il territorio nazionale. Sforzo che è da inquadrare nel particolare modello di capitalismo di territorio del nostro paese che, a differenza di quello francese, anglosassone o renano, non è strutturalmente imperniato sull’egemonia delle metropoli. Per questo il flusso dei migranti si è disperso in mille rivoli, inseguendo le opportunità che offrivano i sistemi produttivi locali.
A questo grande sforzo hanno partecipato anche le Alpi, finanche le valli alpine lombarde crogiolo del leghismo. La popolazione residente nei 520 comuni compresi nelle 23 Zone Omogenee rappresenta nel 2014 il 12,6% della popolazione regionale, con 1.259.870 abitanti. Nel corso del periodo 2002-2014 l’andamento della popolazione ha registrato una crescita complessiva del 6,5%, laddove quella regionale ha invece sperimentato un incremento sensibilmente superiore, pari al 10,4%.
Il fenomeno che in questi anni ha maggiormente influenzato la dinamica demografica regionale è, come noto, quello migratorio. La montagna lombarda non è stata affatto esclusa da questo fenomeno, pur essendone stata investita in maniera relativamente meno repentina. Ciò non toglie che all’inizio del 2014 gli stranieri residenti nei comuni montani abbiano oltrepassato la quota delle 100.000 unità, ben oltre la soglia dei 40.000 sotto la quale si collocavano nel 2002. Se a livello regionale gli stranieri residenti rappresentano ormai oltre il 10% della popolazione, il dato relativo alla montagna lombarda si attesta all’8%.

Senza dubbio sono le pre-Alpi bresciane e la zona dei laghi bergamaschi ad avere sperimentato un impatto particolarmente evidente del fenomeno. Di fatto nella sezione alpina centro-orientale compresa tra Valle Seriana-e Lago di Garda, comprendente anche la Valle Camonica, si concentra ben oltre la metà degli stranieri residenti (il 57,1% a fronte di una quota di popolazione totale pari al 45,7%). A fianco di questa grande concentrazione si affiancano poli di attrazione minori quali l’area del Lario (comasca e lecchese) più contigua alle zone pedemontane, e le Valli del Verbano. Viceversa Valtellina (ad esclusione del polo di Morbegno), alto Lario e montagna bergamasca interna appaiono nettamente meno interessate dal fenomeno migratorio. Se prendiamo la mappa della distribuzione della popolazione immigrata nella montagna lombarda, suddivisa nelle 23 Zone Omogenee che la compongono, essa appare sostanzialmente sovrapponibile a quella dei poli di sviluppo economico. Uno sviluppo economico che di propriamente montano ha poco, essendo sostanzialmente incentrato sulla primazia degli assi di fondovalle caratterizzato da un modello molto simile a quello pedemontano incentrato sulle 3C: casa, capannone, campanile. Da questo punto di vista possiamo ben dire che la “montagna amministrativa” lombarda abbia un baricentro “basso”, intendendo con ciò riferirci alla forza dei numeri socio demografici ed economici espressi dalla fascia sud della Alpi montane, così come da quella espressa dalle “terre basse” di fondovalle rispetto alle “terre alte” propriamente montane.
Resta quindi aperto il tema del rapporto tra migrazioni e terre alte. Ma qui la dicotomia migranti/indigeni c’entra in maniera indiretta, visto che si tratta di luoghi dell’abbandono, ancorché forse ad alto valore simbolico per i locali. C’entrano più le opportunità di insediamento che possono venirsi a determinare, cui sottostanno elementi di investimento economico in stretta connessione con le politiche pubbliche per le terre alte. Due questioni rispetto alle quali al momento non ci si può aspettare il protagonismo dei migranti visto che, da un lato, si tratta di investimenti da first mover (ad esempio i cosiddetti ritornanti) che non rientrano nella razionalità del migrante di prima generazione, dall’altra di impossibilità di influire sulle politiche in quanto esclusi da diritti di cittadinanza.
Ma, al di qua di questi ostacoli, possono essere portate avanti diverse azioni per preparare il terreno all’integrazione dei migranti nelle terre alte, utilizzando veicoli come i Gal, il progetto Aree Interne o l’attivismo associativo, per generare buone pratiche di integrazione. La qual cosa vale, nella fase attuale, soprattutto per i profughi approdati nelle Alpi. Altrove ho parlato della necessità di riadattare il vecchio strumento delle “150 ore” ipotizzando 150 ore di educazione civica, lingua, valori, leggi, tenute dai nostri giovani in servizio civile per i profughi richiedenti asilo. Lo stesso potrebbe essere fatto dai ritornanti alpini nei confronti di chi, tra i transfughi, avesse la vaga intenzione di abitare le Alpi.
Aldo Bonomi

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