Il calcolo è complesso e forse neanche così fondamentale. Avere una cifra esatta dello “scambio” economico di beni e servizi tra città e montagna ovvero tra montagna e città è da tempo oggetto di studi e ricerche. Il gap è evidentemente rilevante e si accompagna con il deficit di sviluppo strutturale e permanente che interessa la montagna piemontese, e in particolare l’area della neonata Città metropolitana. Ma, se è vero che i numeri sono poco significativi in senso assoluto, sono comunque quelli che devono orientare le scelte della politica.
Le istituzioni raramente hanno saputo lavorare per ridurre la sperequazione. Vale per l’organizzazione dei servizi, con un fulcro spostato sempre più a valle. Vale per l’utilizzo di beni e risorse delle aree montane da parte di quelle urbane. Non sono concetti semplici è vero, ma troppo poco, di questi scambi, hanno parlato i media. Non è questa l’occasione per guardare alle passate Olimpiadi e all’incompiuto esame di coscienza, in quell’occasione, attorno agli “scambi” e al sistema di relazione tra città e montagna. Ma sicuramente quella è stata un’occasione persa. Prima di tutto culturale, poi anche politico-istituzionale.
Quello che è avvenuto dopo è storia nota. La Casta, la chiusura delle comunità montane, la trasformazione della Provincia, i tagli dei trasferimenti ai comuni, la nascita delle unioni montane e l’ulteriore trasformazione delle competenze. Ma forse ancor più rilevante è la crisi generale delle istituzioni e della tradizionale logica democratica che sui temi al centro di questa riflessione – il rapporto tra città e montagna, appunto – avrebbero dovuto imporre maggiori, migliori e precise azioni. La marcia della Montagna, dei 30 mila a Roma nel 2008, puntò anche su questo.

La politica per la montagna, nazionale e locale, è ripartita negli ultimi anni senza fare abbastanza tesoro di quelle occasioni e di quel dibattito. Eppure tre elementi vanno (ri)presi in considerazione per capire come ridefinire il legame (non la rottura) tra città e montagna.
Il primo è quello istituzionale: la frammentazione dei territori, con una ventina di unioni montane per 150 Comuni “montani” dentro ai confini della Città metropolitana, non aiutano la concertazione e il dialogo con chi si occupa dell’organizzazione dei servizi, delle risorse economiche, del controllo sulle risorse naturali. I big player e le multinazionali hanno bisogno di “aree libere” a basso prezzo per imporre logiche di mercato convenienti solo a loro. In sostanza, le divisioni amministrative non rendono più forti. E la debolezza, è noto, in politica favorisce la sconfitta.
Il secondo aspetto sul quale lavorare sono le nuove forme di organizzazione dei servizi: ovvero come ridurre la dipendenza delle aree rurali da quelle urbane a partire da trasporti, sanità, istruzione e formazione. C’è una adeguata rivendicazione e anche una mobilitazione costante rispetto ai tagli di opportunità per i montanari. Ma deve anche esserci una riorganizzazione che parta dai territori stessi, che devono essere liberi di esprimere le loro esigenze. Non è solo una questione di risorse, perchè si possono fare percorsi virtuosi nelle aree montane anche con pochi soldi, basta la capacità di innovare e di inserirsi nelle logiche dell’economia circolare, ad esempio, di lavorare per la riduzione del divario digitale. Bisogna lavorare su trasporto a chiamata, telelavoro, telemedicina, nuove imprese. Il punto ovviamente non è ridurre gli scambi tra aree montane e aree urbane, nessun isolamento, ma bisogna dare alle prime l’opportuna indipendenza e ridurre, questo si, l’assistenzialismo. Per tutti i servizi oggi erogati nelle aree montane, la città fa “pesare” l’impegno delle istituzioni centrali. E ha la capacità di agire riducendoli in nome dei numeri ridotti e anche dello scarso potere contrattuale. Se invece sono le istituzioni dei territori a riorganizzare i servizi e a ripensarsi totalmente, queste logiche centro-periferia possono essere ridefinite.
L’ultimo fronte di analisi è relativo ai beni che la montagna condivide e protegge. Quelli naturali prima di tutto. Acqua, foreste, paesaggio, clima. Per i primi due siamo stati per anni abituati ad avere qualche lira e poi qualche euro per il loro utilizzo da parte di imprese. Royalties. Mancette, per “compensare” azioni di sfruttamento assai remunerative per imprese esterne ai territori. Negli ultimi anni, in almeno tre occasioni normative, un gruppo di parlamentari ha provato a introdurre nella normativa il concetto di “pagamento dei servizi ecosistemici-ambientali”, dando loro un valore e una remunerazione da parte di chi li usa, a vantaggio di chi li protegge. La montagna, appunto. In Piemonte un percorso del genere si è avviato nel 1997 con la legge 13 che all’articolo 8 prevede che una percentuale della tariffa sull’idropotabile pagata da tutte le famiglie (le logiche numeriche rendono la cifra composta perlopiù dalla porzione “urbana” di piemontesi) venga destinata annualmente ai territori montani, con i loro enti, per interventi volti alla tutela delle fonti idriche. Un percorso virtuoso che oggi fa scuola in Italia. Ma non basta, occorre fare di più. Soprattutto vincolando le cifre erogate per il pagamento dei servizi ecosistemici allo sviluppo locale e al miglioramento dei servizi pubblici.
La Città metropolitana di Torino può essere, su queste tre direttrici, un luogo alto e proficuo di sperimentazione. Tutto però sta nella capacità della classe dirigente e politica, in tutti i livelli istituzionali, di credere in questa logica che ridistribuisce ruoli e opportunità, ma anche risorse e protagonismo, democrazia e sovranità. Vale la pena di provarci.
Marco Bussone, Vicepresidente Uncem Piemonte