“Voglia di restare. Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi”, a cura di A. Membretti, S. Leone, S. Lucatelli, D. Storti e G. Urso. Donzelli Editore, Roma, 2022.

Il libro presenta i risultati della ricerca “Giovani Dentro”, promossa dall’ Associazione Abitare l’Italia, sui giovani (18-39 anni, di entrambi i generi) residenti nelle “aree interne” (Snai), che, com’è noto, comprendono buona parte della montagna rurale italiana. Grazie alla sua metodologia, all’ampiezza geografica e a quella del campione, l’indagine offre un quadro quantitativo e qualitativo, dettagliato ed esauriente del fenomeno della restanza e dell’abbandono giovanile, dal quale dipende in larga misura anche il futuro delle nostre montagne: un quadro essenziale per mettere in atto politiche adeguate, per le quali il libro offre utili indicazioni. Per spiegare come e perché si decide di restare o partire, l‘indagine esamina la condizione giovanile: la difficoltà dei giovani di rendersi autonomi (terminare gli studi, trovare un lavoro, lasciare la famiglia e farsene un’altra, diventare genitori), il grado di partecipazione alla vita della comunità, l’attivismo sociale e politico, l’impiego del tempo libero, i progetti per il futuro. Decisivo per restare è il modo in cui vengono percepiti i valori del proprio ambiente di vita, i legami umani e le potenzialità del “capitale naturale” locale. Una valutazione positiva di questo milieu spiega la restanza in quasi l’80% dei casi e nella metà di essi è associata alla prospettiva di diventare imprenditori o liberi professionisti. L’indagine scompone poi l’alternativa stare/partire, nei casi dovuti a scelta o a necessità. Ne risulta che i restanti per scelta sono quasi ovunque un po’ più della metà (dunque la restanza non è solo un’opzione residuale). Invece solo il 16% parte per necessità, con qualche maggiore differenza geografica (dall’ 11% Nord ovest al 19% del Sud). Queste scelte vengono poi analizzate in base al variare delle motivazioni tra cui giocano un ruolo importante fattori non economici come quelli salutistici, comunitari, famigliari e della qualità della vita in generale.

L’indagine, mentre rivela la preferenza dei restanti per lavorare nel settore agro-pastorale, mette in evidenza le notevoli difficoltà dei giovani che vogliono intraprendere questo cammino. La necessità di innovare, legata anche al livello di istruzione e a una diversa percezione della natura e della vita comunitaria, si scontra con la resistenza delle mentalità e delle pratiche tradizionali, con la frammentazione fondiaria, la difficoltà di accesso alla terra, la carenza di percorsi formativi capacitanti, di infrastrutture, di servizi e connessioni telematiche. La restanza attiva richiede quindi delle particolari capacità intellettuali ed emotive nel rapporto materiale e politico-sociale con il contesto, qualità che infatti risultano largamente presenti in chi resta. Nei territori più marginali, come quelli della Calabria, a cui è dedicato un approfondimento, la restanza giovanile è una risorsa che permette la sopravvivenza delle comunità locali, mentre la scelta di partire è correlata positivamente ai livelli di istruzione ed è motivata dall’attrazione di una vita urbana ritenuta più ricca di opportunità. Un ultimo capitolo, redatto quando l’indagine sul terreno era già conclusa, esamina il mutare delle prospettive indotte dall’emergenza pandemica, che rivela un effetto di rallentamento dei progetti e dei flussi di mobilità giovanile in tutto il paese. Benché non si notino variazioni quantitative nei flussi pre-Covid tra le aree centrali e quelle interne, in queste ultime il rallentamento sembra favorire la sperimentazione di progetti di vita alternativi.

Il libro si conclude con una postfazione del sociologo Alessandro Cavalli e con due conversazioni, una con l’antropologo Vito Teti, “padre della restanza”, e l’altra con la “scrittrice dei pascoli” Marzia Verona. Cavalli sottolinea l’effetto attrattivo della vita urbana su chi emigra e quello su chi resta di fattori come il lavoro a distanza e l’impegno nel rilancio della propria comunità, il protagonismo delle donne e la capacità dei margini di mitigare il riscaldamento globale. Teti vede nel restare e nel partire un unico processo storico, per cui anche chi resta senza darsi da fare può sentirsi fuori posto, spaesato, sradicato. Alla domanda sull’importanza di creare legami metromontani risponde affermativamente a patto che la prospettiva sia quella di superare la frammentazione territoriale con una progettazione cooperativa che rafforzi le relazioni tra paesi. Marzia dice che la vita in montagna non è tutta rose e fiori, specie per chi vi si trasferisce senza essere “attrezzato”, come lo sono invece i restanti attivi che conoscono la vita di comunità, le norme che regolano l’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, sanno affrontare l’isolamento, la carenza di servizi e così via.

Concludo osservando che questa indagine suggerisce un significato di metromontagna che non si basa solo su relazioni di tipo funzionale. Lo si coglie osservando che certe caratteristiche dei restanti (come il valore attribuito al paesaggio, al “vivere nella natura”, alle potenzialità di lavoro locali, ai legami comunitari, all’innovazione, assieme a un buon livello di istruzione) sono le stesse dei “nuovi montanari” di provenienza urbano-metropolitana. Ovvero, semplificando: chi resta in montagna somiglia a chi arriva da una città che non lo soddisfa, ma che attrae chi lascia la montagna. Sotto questo aspetto la restanza esprime una metromontanità capace di unire due polarità apparentemente opposte.

Giuseppe Dematteis