Enrico Camanni, Ghiaccio vivo. Storia e antropologia dei ghiacciai alpini, Priuli & Verlucca, Scarmagno (To), 2010. 304 pagine, 18,50 euro.

La tesi del libro è chiara: se i nostri antenati temettero la discesa dei ghiacci – come testimoniato dalla diffusa metafora del “Paradiso perduto” – oggi per contro stiamo vivendo la drammatica inversione di questo paradigma. La progressiva scomparsa dei ghiacciai viene riletta da Camanni in modo metaforico come la sconfitta del nostro modello di sviluppo, come simbolo del disordine etico del secolo in cui viviamo.
Torniamo ai fatti. Nell’ultimo secolo e mezzo la superficie glaciale delle Alpi si è dimezzata e le temperature medie sono aumentate di poco più di un grado centigrado. Anche se in via di principio si potrebbe pensare a un naturale processo di fluttuazione climatica che ha caratterizzato gli ultimi secoli della storia dell’uomo, i climatologi ci spiegano come in realtà stiamo assistendo a un’accelerazione del processo di ritiro, causato dall’effetto combinato della proliferazione dei gas a effetto serra e del riscaldamento globale del pianeta. Al di là del dibattito sull’irreversibilità dei fenomeni climatici, le gravi conseguenze dal punto di vista ambientale, economico, sociale e politico testimoniano la rilevanza globale del problema. Non stiamo dunque parlando di un argomento caro solo a uno sparuto gruppi di ambientalisti, ma di un tema dalla drammatica attualità, su cui tutti dovremmo riflettere.
Se i montanari sono stati i primi ad accorgersi del fenomeno del ritiro dei ghiacci a causa delle condizioni mutevoli dell’alta montagna, è però vero che l’innalzamento termico ha delle ripercussioni su scala globale che ci costringono a riformulare il problema in una prospettiva necessariamente extra alpina. Si pensi ad esempio al conseguente innalzamento del livello medio dei mari che indurrà milioni di persone (questa è l’entità demografica relativa agli abitanti del pianeta terra che vivono entro il primo metro sopra il livello del mare) a trovare una sistemazione abitativa diversa, ribaltando completamente gli assetti demografici, economici e politici di intere nazioni.
Se nei secoli la colonizzazione umana del territorio si è evoluta in modo dinamico in relazione alle modificazioni del contesto climatico e geomorfologico, oggi la civiltà metropolitana della modernità tende ad ignorare, sottomettere o cancellare la natura in modo acritico e arrogante.
Come nelle città morte di Mike Davis, quando le comunità che animano i luoghi sono ridotte a entità passive, incapaci di ogni iniziativa, sradicate dal territorio che abitano, queste possono cadere in balia di forze esterne che non sono più in grado di controllare. In un mondo artificializzato in cui i legami con il territorio sono sempre più sterili, gli uomini non hanno più gli strumenti per mettere a punto nuove forme di adattamento alle condizioni che cambiano e rischiano di precipitare nell’isolamento, nell’impotenza e nella precarietà.
La montagna – ultimo lembo di terra e di cultura non ancora del tutto divorato dalla città globale – rappresenta per Camanni un “laboratorio” per tentare di ristabilire un rapporto più profondo con il territorio, per rimetterci al passo con il modello circolare degli ecosistemi naturali che, come il ciclo dei ghiacciai, tende all’equilibrio finale.
Roberto Dini