Autunno Viola. Storie di un tempo appena fuggito, un film di Sandro Bozzolo e Maria Cecilia Reyes, 59’, colore, autunno 2010.

Come tanti altri comuni delle Alpi cuneesi, nel corso degli ultimi cent’anni Viola ha visto assottigliarsi di anno in anno il registro dei residenti: nel 1881 ospitava 1452 abitanti, prima dell’ultima guerra 1148 e oggi poco più di quattrocento. Dei giovani che sono tornati dal fronte o dalla macchia, molti negli anni ’50 sono scesi a lavorare nelle fabbriche e negli uffici della pianura. L’ultimo locale della frazione ha chiuso negli anni ’80: a Viola, sotto il castello, vivono oggi sessanta vecchi. Qualcuno dice che la gente è fuggita «non per guadagnare di più, ma anche perché a Viola, semplicemente, non era possibile spendere». Un pugno di anziani quasi dimenticati in posto da una storia che ha tirato dritto per sessant’anni senza più badare al loro piccolo mondo fatto di animali, cereali rustici e castagne. Quasi disinvolti, completamente disillusi di fronte alla videocamera inquieta di Sandro Bozzolo e Maria Cecilia Reyes. Soltanto un violese come Sandro avrebbe potuto seguirli all’ombra dei castagni, nel chiuso delle stalle, dietro ai trattori, intorno al tavolo della cucina per raccogliere ricordi, canzoni, riflessioni, sfoghi, sguardi.
Sulle musiche originali di Marco Lo Baido,  una voce intrisa del piemontese locale, seria e sorniona a un tempo, raccorda le interviste sottotitolate, introduce le persone e ne commenta le parole. Incontriamo così Silvia, che non si è mai sposata e porta al pascolo gli animali da una vita: ma solo quando ha visto la sua capra bianca attraverso lo schermo della videocamera si è accorta per la prima volta di quanto fosse bella. Il fatto è che per la bellezza ci vuole il tempo, la pancia piena, le mani in mano: per i contadini come Silvia vivere vuol dire da sempre faticare e tutto il resto è solo «un insulto alla millenaria logica del lavorare».  C’è Gildo, «un outsider, un anarchico di fatto con lo sguardo puro di chi è cresciuto tra terra e neve»: politicamente scorretto e saggio fino alla spietatezza, svela «una realtà tremendamente vera, dove il peso della vita si carica sulle spalle e la merda si chiama merda e puzza».
C’è poi chi rimane in montagna per abitudine, chi per scelta, chi per continuare un lavoro da allevatore che rende sempre meno, nonostante le politiche attuate in favore delle imprese di montagna. Anzi, proprio a causa dei limiti di scelte che penalizzano le piccole realtà di chi davvero presidia e cura la montagna: «Non gliene frega niente di chi vive, di chi lavora, di chi veramente sul territorio ci abita. […] I loro conti sono diversi, li fanno al computer. Ho provato a mettere il computer nei boschi a veder se li puliva, ma il computer non ha pulito i boschi. Dove l’ho messo è rimasto e il lavoro non l’ha fatto: il lavoro manuale non c’è nessuno che lo sostituisce». Ma nemmeno si trova più chi è disposto a farlo, neanche gli stranieri “manc pi lò”. Anche se qualcuno negli anni è venuto da lontano, dalle Filippine, per sposarsi e vivere a Viola: in fondo la campagna si somiglia dappertutto, anche se dall’altra parte del mondo «le castagne si chiamano riso, noci di cocco, caffè».
Le interviste, in bilico tra il dialetto e l’italiano, sospese tra un passato che non c’è più e un domani che non è mai arrivato e ha deluso, come uno sposo mancato all’altare, funzionano da macchina del tempo. Si attraversa seguendo il filo di una valle Mongia che risuona dei canti dei carbonai, delle celie dei ragazzi, delle feste dei giovani di leva. Scorrono, come attraverso un vetro offuscato, gli anni del boom economico e del crack demografico, dello sci a Viola S. Grée, delle vicende dell’alta politica che ignora la media montagna. Non è solo lamento, è anche critica – dura, libera, spontanea –  a un modello di sviluppo avvertito come contrario alla misura, al limite costituito dalla natura, con cui chi lavora la terra convive e combatte: «In giro ci sono solo più macchine. La FIAT produce macchine. La Germania produce macchine. L’Olanda produce macchine. Il Giappone produce macchine. Tutte le nazioni: macchine, macchine, macchine. È vero che con il tempo le macchine si rompono, ma non possono assolutamente rompere tutto quello che producono. È impossibile. Un bel giorno potrai anche avere un capannone pieno di macchine grande come tutta la montagna: e poi? Cosa fai?».
Il capolinea del viaggio è la Viola Castello di oggi, uno spazio che ha il sapore del rimpianto, dove regna il silenzio, dove vivere è decisione consapevole di frugalità o semplice abitudine a esistere e resistere in montagna. Ma nel finale il silenzio è rotto da una musica in lontananza, un motivo allegro che a poco  a poco riempie le vie come un raggio di luce che filtra tra le foglie dei castagni al crepuscolo: è la banda, che attraversa il paese e richiama le persone lungo la strada, le raccoglie sulla piazza come una volta. Che si tratti del canto del cigno di Viola? E se anche Viola Castello dovesse scomparire, i suoi bei castagneti “all’inglese” essere inghiottiti dalla vegetazione, i suoi contadini dimenticati e le sue case livellate dal tempo: «…e va bene, dove sta il problema?». Ce lo chiede la capra parlante di Silvia, con candida barbetta di filosofo e animo leopardiano: la natura, secondo lei, ha già preso la sua decisione. Umberto Saba in una poesia famosa parlava a una capra, si univa al suo lamento, qui invece siamo noi a ascoltare una capra che ci mette in guardia dal crederci eterni e indispensabili, dal pensare che qualcosa di quello che chiamiamo civiltà o cultura sia destinato a durare più di qualche giro di stagione. Sono belati di ironica saggezza, quelli della capra di Silvia, che evitano al film e a chi lo guarda di cadere nella trappola dell’esaltazione acritica di un mondo contadino che non c’è più. Tuttavia il sapore in bocca è amaro, almost blue, “quasi triste”: rimane la sensazione di stare per dire addio a qualcosa di importante, una sorta di disagio per gesti e saperi dimenticati molto in fretta. I ragazzi di montagna studiano e se ne vanno: uno diventa regista, torna e filma la fine di qualcosa che lui stesso sente di non poter continuare. E allora racconta, Sandro Bozzolo, e lo fa con poesia – con affetto, anche. Non cerca elegie banali, non punta alla retorica e quando la corteggia è solo per farle subito dopo un’intelligente sgambetto. Sarà per questo che il film ha fatto discutere, in primis l’amministrazione comunale, perché il documentario «dà un’immagine troppo triste di Viola». Non esiste amministratore di comune o ente montano che non abbia promesso in campagna elettorale di “dare la parola ai montanari”. Naturalmente a patto che dicano solo ciò che la politica è disposta ad ascoltare e che, se proprio devono lagnarsi, almeno si lamentino con moderazione e lo facciano in modo pittoresco, senza spaventare i turisti. Altrimenti che se ne stiano in silenzio come sono vissuti, al massimo cantando a bassa voce una canzone di commiato: «…buona sera e felice notte, ce ne andiamo a riposar».
Irene Borgna

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