Massimo Manavella e Sylvie Bertin, Rifugio Selleries, Località Alpe Selleries, 2023 m, Val Chisone.
Andrea “Aladar” Pittavino, Rifugio Pagarì, 2650 m, Valle Gesso.
«Tutto parte dalla passione per la montagna. All’inizio la frequenti, ti diverti. Come quando sei giovane, e hai diverse fidanzate. Poi a un certo punto non ti basta più e cerchi una compagna con cui costruire qualcosa e condividere la vita. In montagna è uguale. Arrivi a un certo punto in cui frequentarla non ti basta più e ne fai una scelta di vita».
Massimo Manavella gestisce il rifugio Selleries con la compagna Sylvie Bertin da nove anni. Situato in Alta Val Chisone (To), nel cuore del Parco Naturale Orsiera Rocciavrè, all’interno della Conca dell’Alpe Selleries a quota 2023 metri, la struttura è di proprietà della Regione Piemonte e si raggiunge in auto attraverso una lunga strada sterrata. Dopo aver studiato all’alberghiero di Pinerolo, Massimo ha passato una serie di stagioni presso hotel e rifugi di montagna, e alla fine ha preso la gestione del Selleries. Poi a Massimo e Sylvie è nato un figlio: «Mia moglie e Leonardo stanno giù da lunedì mattina al venerdì sera – racconta Massimo – mentre io rimango su a seconda delle esigenze degli ospiti. Abbiamo una motoslitta per l’inverno e un fuoristrada per l’estate, che è la condizione minima per una famiglia che tiene aperto il rifugio tutto l’anno». E’ la passione che spinge la famiglia Manavella a continuare una professione così particolare: «Tutto sta nel programmarsi bene – continua Massimo – perché quando vogliamo andare al cinema o partecipare a qualche evento, dobbiamo organizzarci per tempo e scendere a valle. Lo stesso per nostro figlio, che prossimamente avrà sempre più bisogno di frequentare amici e compagni». Per il resto, assicurano i gestori, «questo mestiere ti condiziona la vita ne più ne meno che un impiego in banca o la gestione di un negozio all’interno di un centro commerciale». La differenza, conviene Massimo, sta nel fatto che queste due ultime “scelte di vita” sono sicuramente più accettate da una società ancora fortemente urbanocentrica.
Completamente diversa la storia di Andrea “Aladar” Pittavino, che da ben 24 anni gestisce il rifugio Federici-Marchesini al Pagarì, spesso indicato semplicemente come rifugio Pagarì, in Valle Gesso, nel comune di Entracque (Cn), a 2650 m di quota, nel Parco naturale delle Alpi Marittime, ai piedi dell’imponente parete della cima della Maledia. Con un sentiero di accesso, rigorosamente escursionistico, di almeno quattro ore. Dopo aver studiato fisica teorica all’Università di Torino, Andrea a 23 anni racconta di come sia «finito a gestire il rifugio Pagarì». Un lungo percorso lavorativo, cominciato col fratello nel lontano 1992, che continua ancora oggi con l’aiuto della moglie. «La cosa che mi appassiona di più, ancora oggi – racconta Andrea –, è l’incontro con un’umanità così varia in un posto così privilegiato». Andrea tiene aperto da giugno a settembre perché, spiega, «il rifugio nasce come un bivacco a 2650 metri, posizionato a nord. Non è stato pensato come rifugio per l’inverno e le mezze stagioni». Nella stagione fredda fa il muratore per arrotondare. Perché il Pagarì non ha una dimensione tale da poter offrire margini economici per passare l’inverno.
«In questi 24 anni ho sempre cercato di rinnovarmi – racconta Andrea – evitando di far diventare la gestione un lavoro routinario». Così nel 2011 si accolla i lavori di ristrutturazione e ampliamento del rifugio: 1600 ore di “volontariato”, con materiale e trasporto in loco a carico del Cai Ligure, padrone della struttura. «Ho lavorato per due anni, portando avanti il cantiere anche durante la stagione di apertura del rifugio». Poi il birrificio, il più alto d’Italia, realizzato grazie a una lunga trafila burocratica portata avanti grazie all’interessamento di un valido impiegato negli uffici della Dogana: «per dare un prodotto speciale e di qualità ai miei ospiti: biologico e certificato Ecolabel».
Un’attività cominciata quasi per caso, ricorda Andrea, che poco alla volta l’ha fatto innamorare fino a diventare il suo lavoro. «Ma un lavoro che deve sempre essere mosso dalla passione – spiega Aladar – perché altrimenti può trasformarsi in una prigione. La fatica fisica e mentale si sente, ma se c’è l’entusiasmo tutto procede». Un “rifugista d’altura” deve essere in grado di fare un po’ di tutto, dal cambiare una pompa dell’acqua che si blocca al programmare i trasporti in elicottero ad inizio stagione. «Ricordo il primo anno – conclude Andrea –, avevamo i soldi per un solo trasporto ad inizio stagione. Abbiamo sbagliato completamente la pianificazione, e l’abbiamo pagata cara. Ci è toccato salire una volta a settimana con 35 chili sulla schiena». Quattro ore di marcia, 1200 metri di dislivello. Mossi dalla passione.
Maurizio Dematteis