di Roiberto Dini
Storicamente – se intendiamo le Alpi come paesaggio culturale – stupisce nel vedere come, anche senza forme esplicite di “controllo” (nel senso urbano o edilizio), fatte salve quelle legate alle modalità tipiche della gestione fondiaria alpestre (consorterie, ecc.), si sia venuta a creare una profonda integrazione tra ambiente, geomorfologia ed elementi antropici.
Lo stesso non possiamo dire per le pratiche di trasformazione ordinaria del territorio che nel corso del Novecento – nonostante lo stato in essere di forme di pianificazione verticale – hanno invece completamente riplasmato la morfologia alpina e determinato il paesaggio costruito oggi sotto i nostri occhi. Da una parte l’iper-antropizzazione portata dall’industrializzazione, dall’infrastrutturazione e dall’urbanizzazione diffusa nei fondovalle produttivi e nelle testate delle valli turistiche. Dall’altra parte invece quella montagna di mezzo per la quale modernizzazione ha significato soprattutto marginalizzazione, spopolamento, abbandono.
Ma che cosa significa in termini “architettonici” governare dunque oggi il territorio alpino?
Fermo restando la necessità di porre dei limiti alle minacce insite ancora oggi in anacronistici progetti di sfruttamento turistico onnivoro (resort, collegamenti intervallivi, ecc.), la sfida prioritaria è quella di introdurre nuovi paradigmi, innanzitutto culturali, che consentano di trasformare le condizioni di fragilità del territorio in occasioni di rinascita.
Se guardiamo ai sempre più numerosi esempi di rigenerazione sociale ed economica in atto sul territorio alpino (dalle valli del cuneese al Veneto, dalla Lombardia alla Valle d’Aosta), essi sono infatti profondamente intrecciati con il tema del riuso del capitale fisso territoriale esistente. Il punto è oggi pensare al patrimonio sottoutilizzato o abbandonato come ad una trama di supporto per un processo di risignificazione del territorio. Non limitarsi dunque alla protezione o alla salvaguardia dell’esistente ma ad un’azione progettuale di recupero, mediazione e trasformazione in funzione dei bisogni attuali. Ciò significa prendere le distanze da quelle operazioni estetizzanti che produrrebbero di fatto una snaturalizzazione ed una perdita di realtà e rimettere in gioco il valore d’uso dei manufatti ponendo di nuovo al centro la morfologia, la tipologia e le caratteristiche qualitative degli oggetti esistenti, in relazione alle possibilità di riusi compatibili, di spazi riutilizzabili, di strutture riconvertibili.
Più che di regole “di contenimento” sembrano dunque servire esempi e modelli che in modo proattivo contribuiscano a creare una nuova sensibilità verso la qualità dello spazio costruito, inteso non solo come patrimonio da valorizzare ma come spazio da usare, come luogo di socialità, di nuove produzioni economiche e culturali, di nuove relazioni con l’ambiente.
Inoltre non è più possibile relegare la disciplina del progetto architettonico ad una banale “messa in forma” delle funzioni secondo determinate regole di natura economica, urbanistica, normativa. Sempre di più il progetto di architettura nei contesti rarefatti come quello montano, diventa uno strumento fondamentale per la creazione di processi che vedono il coinvolgimento delle comunità, dei portatori di interesse, dei soggetti istituzionali locali e sovralocali. Questo è un aspetto centrale per la messa a punto di un’architettura “appropriata” in grado di porsi come strumento progettuale esplorativo e dialogico che, insieme a tutti gli attori interessati, è a disposizione del territorio e consente di comprenderne i bisogni, di misurarne le caratteristiche morfologiche e materiche, di verificarne la sostenibilità, di prefigurarne le traiettorie future. Un cambio di paradigma che va fatto, prima ancora che con la Legge, attraverso un lavoro di promozione culturale dell’architettura dei territori di montagna, tema su cui in questi ultimi anni hanno lavorato molti soggetti pubblici e istituzioni come ordini professionali, università, associazioni, fondazioni, enti e centri di ricerca.