Maurizio Dematteis, Via dalla città. La rivincita della montagna, Derive Approdi, Roma 2017. 192 pagine, 18 euro.

Ci sono più modi per leggere e intendere il bel libro inchiesta di Maurizio Dematteis dedicato a chi ha lasciato la città per rifarsi una vita in montagna, e alcuni mi sembrano fuorvianti. Per esempio la “rivincita” suggerita dal sottotitolo in implicita risposta al “mondo dei vinti” di Nuto Revelli, come se esistesse oggi un contromondo dei “vincenti”. Oppure la lettura romantica di chi si ostina a vedere tutto il male nelle città e tutto il bene sopra i mille metri, come se fosse una questione di ossigeno nell’aria. Oppure, ancora, l’idea distorta che la fuga sia una cosa nuova, di questi ultimissimi anni, come se nei decenni precedenti nessun cittadino avesse avuto la tentazione e il coraggio di scappare via. Non è così, perché ci sono state altre ondate di evasione in senso “ostinato e contrario”, dalla città verso la montagna, poco eloquenti nelle cifre ma importanti per le motivazioni. C’è stata l’ondata ideologica degli anni settanta, quando sembrava che le minoranze alpine avrebbero cambiato le maggioranze, e poi l’ondata performante degli anni ottanta e novanta, quando molti cittadini hanno deciso di fare il maestro di sci e la guida alpina “macchiando” l’antropologia tradizionale delle professioni di montagna.
Il libro di Dematteis, che gode dell’introduzione critica di Aldo Bonomi e si muove su tre poli urbani – Torino, Milano e Genova – e su altrettanti ponti con le Alpi, a mio parere va letto e apprezzato soprattutto come la fotografia di un mondo complesso e globalizzato, in cui è scomparsa la dicotomia tra città e montagna. Cittadini e i montanari sono ormai le due facce della stessa medaglia. Giustamente il libro indaga anche negli ambienti urbani – come le librerie di montagna – dove nasce la voglia di andare via, dove passano e sognano anche gli alpinisti e gli escursionisti, che non sono affatto montanari doc e non lo saranno mai, però condividono e alimentano la visione contemporanea della montagna. Neanche la distinzione tra alpinista e montanaro ha più la forza di una volta, quando ci si vergognava di non avere le mani sporche di terra.
A ben guardare i personaggi intervistati e raccontati dall’autore sono tutti abitanti precari di un unico mondo, provvisoriamente accampati sulla strada che sale e scende secondo le maree della passione e del disgusto, e secondo i capricci dell’economia. Ai nostri giorni bisogna essere un bel po’ cittadini per apprezzare i silenzi della montagna, e un bel po’ montanari per capire l’importanza della città.
Se non lo si interpreta con sguardo semplicistico e manicheo, questo viaggio verso le Alpi (con i mezzi pubblici: che fatica!) è dunque soprattutto un viaggio dentro la metropoli, nelle sue contraddizioni, nel suo dilagare onnipotente, nella sua incapacità di correggersi e guarire. “Via dalla città” non è solo un libro per chi ama la montagna. Prima ancora è una lettura per chi ha conosciuto la città, l’ha patita, amata e fuggita, comunque ha conservato la speranza e la forza di fare qualcosa.
Enrico Camanni