Mentre nel campo delle scienze umane e sociali il concetto di identità, riferito a un gruppo e a un territorio, viene messo in discussione e addirittura negato, ad esso fanno invece sempre più riferimento i programmi di politica territoriale e paesaggistica e i piani di sviluppo e di riqualificazione locale (PTR, PTI, Leader ecc). Come si spiega questa contraddizione?
Se già l’identità personale non può essere presa troppo alla lettera, in quanto nessun individuo può mantenersi identico nel tempo, ancor più metaforica e quindi ambigua è l’identità riferita a un gruppo umano insediato. In questo caso, anche a prescindere da strumentalizzazioni ideologiche, c’è anzitutto la difficoltà di definire l’oggetto a cui riferire il principio di identità: è un soggetto territoriale collettivo (gruppo, comunità, nazione ecc.) che risponde a qualcosa di realmente esistente? Oppure questa corrispondenza tra gruppo sociale e certi luoghi è solo un ricordo del passato, un modo convenzionale di ripartire una popolazione su un territorio? Inoltre non è chiaro quali siano gli attributi identitari comuni ai membri di queste presunte collettività: le memorie, la cultura, il senso di appartenenza, una progettualità condivisa?
Considerando poi che molti di questi referenti – comunità, cultura, ecc – sono a loro volta messi in discussione da autorevoli studiosi, è forte la tentazione di dire che l’identità territoriale non esiste, è una finzione talvolta utile, più sovente nostalgico-regressiva. Forse però le cose non sono così semplici, se ad esempio biologi come Maturana e Varela hanno dato una definizione oggettiva di identità riferita all’organizzazione interna dei sistemi autopoietici, che alcuni ritengono estensibile – a livello metateorico (e non solo metaforico) – ai sistemi socio-territoriali.
Sembra inoltre che possa esserci un uso performativo e virtuoso dell’idea di identità nella costruzione dell’attore collettivo, protagonista dello sviluppo e della riqualificazione locale. In questo caso sarebbe di scarsa rilevanza la componente tradizionale della memoria condivisa – oggi notoriamente impraticabile in società locali ibride, multietniche e multi-identitarie – mentre acquisterebbe significato strategico la componente orientata al futuro, come base per costruire programmi e progetti condivisi di conservazione/trasformazione. L’identità territoriale diventerebbe cioè una costruzione artificiale capace però di produrre qualcosa di reale, prima a livello di legami sociali e poi di conseguenti trasformazioni istituzionali, pratiche e assetti territoriali.
Come si vede la questione non è limitata a un ambito accademico, il quale tuttavia rimane essenziale per chiarire di che cosa si parla. Infatti prima di decidere e agire è necessario capire quale rapporto ci sia tra espressioni come identità territoriale (collettiva, di gruppo, locale ecc.) e i diversi piani delle realtà – materiali, sociali, istituzionali, mentali, virtuali ecc. – su cui si intende operare con le politiche di sviluppo, coesione e riqualificazione territoriale, ambientale e paesaggistica.
Il tema acquista particolare rilevanza nell’area alpina (e montana in genere) dove certe forti caratterizzazioni culturali del passato continuano a improntare le visioni del presente in modo sovente acritico e poco realistico. Chiedersi che significato analitico e che valenza operativa possiamo attribuire oggi alle identità locali alpine può dunque essere un percorso di indagine interessante sia per indagare i gravi problemi di una larga parte del nostro territorio e dei suoi abitanti, sia per stimolare una riflessione di carattere metodologico e teorico più generale.
Trattandosi di un problema di frontiera tra più discipline, si è pensato che il modo migliore per approfondirlo sia quello di fare dialogare tra loro antropologi, psicologi, sociologi, geografi e studiosi di scienze agrarie, pianificazione territoriale, ambientale e paesaggistica.
Beppe Dematteis