Franco Riva, Filosofia del viaggio, Castelvecchi, Roma 2013. 150 pp., 18,50 euro.
L’autore Franco Riva è docente di Etica sociale, filosofia del dialogo e antropologia filosofica alla Cattolica di Milano. Dunque è un libro di filosofia: si ispira largamente ad autori come E. Husserl, E. Lévinas, P. Ricoeur, M. Heidegger, H. Hesse, E. Morin e altri ancora. Più che la parte più filosofica del libro (che per il lettore comune è un po’ noiosa) ho trovato interessante la prima parte (Viaggio, accoglienza, unicità), dove l’autore mette a frutto sue precedenti ricerche e riflessioni per trattare un tema a noi particolarmente caro, in quanto ispiratore della “filosofia” dei “luoghi” di Dislivelli e ora quella di Sweet Mountains. Mi limito a citare alcuni passi significativi.
Sul viaggio come tour (da cui “turismo”) pp. 10-11: «Il bisogno di uscire da sé, di orientarsi verso altro e di tornare quindi presso di sé, di compiere appunto un giro (…) appare però, a ben vedere, come la superficie di un altro e più profondo movimento, dove niente invece torna mai allo stesso punto. (…) qui il viaggio non è più un tour, un giro perfetto, che si ripiega su se stesso, bensì un avanzamento costante.” (Più avanti, a p. 89 si legge: «lo scardinamento dall’ordinario, il senso dell’alterità, la percezione di una provvisorietà strutturale sono gli elementi caratteristici del viaggio»).
Dunque un viaggio sarebbe tale se c’è l’incontro con qualcosa-qualcun altro che in qualche modo ci cambia, dando una scrollata alla nostra identità. Se no è un non-viaggio, un semplice prodotto «orientato a una serialità che ne permette il grande e ripetibile consumo (…) senza incontro, perché non c’è allontanamento da sé ed esodo verso l’altro» (pp. 14-15). «Il viaggio è in rapporto con un distacco dall’identico, con una frattura dell’ordinario (…) percezione di un’alterità che affascina sottilmente, e con cui ci si confronta…» (p. 16). Non solo, ma «il viaggio senza distacco trasforma tutto in colonia: colonia della patria di origine; colonia degli interessi del viaggiatore; colonia delle emozioni…» (p. 69)
Su luogo, comunità e accoglienza: «Il viaggio di chi viaggia suscita un “viaggio” anche in chi ci ospita. (…) Il luogo di una comunità è anche il suo spazio fisico, e lo spazio fisico è pure l’identità culturale della comunità. (…) Tra comunità e ospitalità si dà una sovrapposizione sottile, fin al punto di pensare che accogliere sia per essenza un atto comunitario. (…) Una comunità dimostra di avere tanta più identità quanto più riesce ad aprirsi e ad offrire ad altri questa identità” (pp. 22-24). E’ poi molto importante come la comunità si presenta e si rappresenta: “l’autoracconto di una comunità avviene dentro una sintesi di aspetti linguistici e materiali (…) La comunità che ospita racconta se stessa (…) attraverso il volto architettonico, storico, artistico che ha dato a sé stessa» (p. 25).
Poco oltre troviamo un’affermazione a mio parere molto importante, in quanto troppo sovente la visita dei luoghi tende a ridursi a una loro presentazione e rappresentazione in termini puramente simbolici e spettacolari che occultano la realtà, mentre «se non c’è comunità senza corporeità, senza cultura materiale, non ci sarà neppure vera accoglienza» (“la riduzione a puro spettacolo delle proprie tradizioni culturali impedisce una logica del’accoglienza”, p. 28). In particolare in questa materialità «il cibo diventa, accanto agli altri, un fattore strategico eccezionale per il dialogo con la comunità che accoglie» (p. 26).
E’ anche importante sottolineare la reciprocità del rapporto di accoglienza (pp. 27-29): «tanto l’ospite quanto l’ospitante stanno, seppure in modi diversi, nell’articolazione tra una proposta di sé e un’apertura all’altro». Il primo «non può essere ridotto soltanto a un “passante” o a un “cliente”, da cui ricavare il massimo nel più breve tempo possibile. (…)I beni della comunità che ospita, piuttosto, dovrebbero essere diffusamente e discretamente accessibili, quasi respirabili come un’atmosfera». Il secondo deve «far percepire la propria diversità, ma con la discrezione del suggerimento. L’ospitalità si gioca tra sollecitudine e discrezione». Ciò vale anche per chi è ospitato: «la discrezione diventa qui il sintomo dell’atteggiamento contrario a ogni occupazione e a ogni padronanza sull’altro».
Queste affermazioni, che nel libro sono ampiamente argomentate, contengono a mio avviso molti dei principi su cui si basano le nuove forme di turismo “dolce” e “responsabile”, sia per chi visita i luoghi, sia per chi accoglie.
Beppe Dematteis