La realizzazione del progetto Sweet Mountains sta confermando l’intuizione da cui partimmo quindici mesi fa: le montagne delle Alpi occidentali – e non solo quelle, naturalmente – offrono un’eccezionale offerta di proposte culturali, naturalistiche e sportive che non viene intercettata e promossa dai modelli del turismo intensivo, ma dalle piccole realtà ricettive e dagli operatori più profondamente inseriti nel tessuto del territorio. Solo questi soggetti, talvolta rappresentati dalle amministrazioni, talvolta soli e isolati, generalmente sconosciuti al grande pubblico, sanno offrire al visitatore un panorama organico della loro valle, all’insegna di un turismo responsabile e sostenibile che colleghi la città alla montagna e non contrapponga il valligiano al forestiero, ma li avvicini.
È evidente che oggi esistono due turismi sulle Alpi (e non solo). Convivono ma non si parlano quasi mai. Non per pregiudizio, ideologia, antipatia o altro, ma perché rispondono a modelli di mercato lontanissimi, si muovono autonomamente e puntano a clienti diversi. Camminano in parallelo senza incontrarsi, senza scambiarsi, senza “contaminarsi”. Sono due rotaie puntate su obiettivi diversi, e seguono schemi opposti per raggiungerli.
Il turismo intensivo, che risponde perlopiù al mercato dello sci e alle sue derivazioni, è un’industria in gran parte slegata dal territorio in cui opera. Segue modelli di promozione e sviluppo applicabili a Dubai come sulle Alpi e, come ogni industria, ha bisogno di crescere sempre per non morire. A dispetto della crisi economica, del costo dell’energia, del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione, e anche della crisi culturale di un certo modo di “fare montagna”, consumista e passivo, l’industria dello sci è costretta a investire ininterrottamente in nuovi impianti, nuovi cannoni, nuove offerte e nuovo appeal, ricorrendo a una bella fetta di finanziamenti pubblici, come dimostra l’inchiesta di Dislivelli che segue. In altre parole lo sci è pagato da tutti noi, e non è sbagliato dire che chi compra un biglietto giornaliero o stagionale lo paga due volte. E paga anche chi non scia.
Esiste per fortuna un secondo modello complementare al primo, non concorrenziale, che potremmo definire “artigianale”. Profondamente inserito nel territorio in cui opera e legato alle attività produttive di piccole e medie dimensioni, dalla caseificazione di qualità all’agricoltura biologica, dalla divulgazione eco museale alla promozione escursionistica, è un turismo molto elastico e molto sweet (sweet & slow, ci piace dire), capace di adattarsi senza traumi alla domanda modulando l’offerta in base al luogo, al tempo e alla nuova congiuntura climatica. È un turismo morbido che non danneggia l’ambiente ma lo valorizza, non urla ma dialoga, e cresce lentamente con la possibilità di fermarsi, riflettere, correggere e ripartire.
Il turismo sweet utilizza e valorizza i beni di cui l’Italia è ricchissima senza saperlo: la natura, la cultura e la bellezza. E si integra molto bene con la quarta offerta che tutti ci invidiano: l’agricoltura di qualità. In Alto Adige e in tutti i paesi di lingua tedesca ha già raggiunto fatturati considerevoli, mentre sulle Alpi occidentali e centrali stenta e inciampa, eppure esiste, ci crede e prova a uscire dallo stato carsico alla luce del sole. A quel punto sarà in grado di offrire migliaia di posti di lavoro, tenacemente ancorati al territorio.
Naturalmente è una questione di cultura, innanzi tutto. Se fosse solo questione di soldi avremmo già saputo vedere e valorizzare le straordinarie ricchezze dei nostri territori trasformandole in un turismo responsabile e capace di futuro. Ma siccome gli investimenti turistici esistono, e sono altissimi, ci siamo permessi di giocare con una provocazione: se ipotizzassimo di investire il dieci per cento di quell’altro turismo, di quei soldi pubblici, in nuove forme di frequentazione turistica, che cosa succederebbe alle nostre montagne?
Ecco la domanda precisa: «Premesso che l’industria dello sci, nonostante l’ingente contributo pubblico che pesa sulle tasche dei contribuenti, è sempre meno sostenibile dal punto di vista economico (nonché ambientale), ipotizziamo di sottrarre a questo comparto un 10% dei finanziamenti annui per investirli in forme di turismo alternativo e di più ampio respiro stagionale. Lei da dove partirebbe? Che priorità individuerebbe? Che strategia di investimenti proporrebbe?»
L’abbiamo chiesto ai massimi esperti della materia, accademici e non. Vi sottoponiamo le loro risposte senza alcun intento polemico, solo per amore di verità. Qui si gioca il futuro delle Alpi italiane, i cui peggiori nemici sono i settarismi, le lobbies, la cattiva informazione e l’ignoranza. Nel senso di chi non sa, o non vuole sapere.
Enrico Camanni