Negli ultimi cento anni la montagna, invasa dalla città, è andata perdendo la sua diversità (che è poi la sua maggiore risorsa), mentre è cresciuta la disuguaglianza tra chi ci vive e chi vive nelle città della pianura. A tal punto che questo squilibrio oggi non può essere superato senza l’aiuto delle città.
A questo proposito il convegno ha dato una risposta a due domande. Prima domanda: perché la città dovrebbe aiutare la montagna? Alcuni motivi riguardano la nostra cattiva coscienza: finora la città ha preso dalla montagna molto di più di quello che ha dato, inoltre, sfruttando le sue risorse umane e naturali, ha contribuito alla crescita delle attuali diseguaglianze. Altri motivi sono egoistici, ma lungimiranti: il mancato presidio della montagna ci priva di risorse e aumenta i rischi idrogeologici; l’abbandono minaccia beni comuni importanti, di cui tutti godiamo, come quelli culturali, ambientali e paesaggistici; la rinascita della montagna è un’occasione per sperimentare nuovi modi di abitare e interagire con gli ambienti naturali, modi capaci di soddisfare bisogni di qualità della vita sempre più sentiti e diffusi proprio nelle città.
La seconda domanda riguarda il come di questa possibile nuova alleanza della città con la montagna. Un’idea del genere era alla base del progetto “Torino città delle Alpi”, elaborato tra il 2002 e il 2006 dal TOROC (Comitato olimpico torinese). L’allora Presidente del Comitato, Valentino Castellani, nel suo lucido intervento al nostro convegno ha riconosciuto che è stato «un grande obiettivo mancato», in quanto, finiti i Giochi, le cose sono continuate come prima, e ha attribuito questo fallimento a una mancata visione sistemica del problema.
Questo mi pare un argomento cruciale anche per andare alla radice del problema. Città e montagna fanno parte di un sistema-mondo che è dominato culturalmente, economicamente e politicamente dalla città. Per ridurre lo squilibrio tra le due non possiamo pensare alla montagna come se fosse fuori del mondo, cioè come non-città. Possiamo rappresentare il modo in cui finora la città ha immaginato (anche in occasione dei Giochi) un’ipotetica trattativa con la montagna come un tavolo attorno a cui si siedono da una parte gli attori della città e dall’altra quelli delle non-città, considerati dai primi come qualcosa di naturalmente e irriducibilmente “altro”, come un mondo fatalmente destinato ad essere rurale e ancillare alla città stessa. Un “mondo dei vinti” senza possibilità di rivincita.
Da “tavoli” di questo tipo possono uscire nuovi o più moderni impianti di risalita, seconde case (una manna per i piccoli comuni che sono ridotti a far cassa con oneri di urbanizzazione e ICI per pagare lo sgombero della neve e simili), un po’ di green economy, soprattutto a vantaggio dei padroni delle reti (acqua e energia), un sostegno al turismo diffuso, specie a quello nostalgico del passato, e così via. Forse esagero un po’, però mi pare certo che se la città pensa la montagna come quella società e quel territorio che non ha diritto a diventare città, non ci sarà mai riequilibrio, ma sempre disuguaglianza e dipendenza.
E qui torniamo al come: come si può essere città in montagna? La risposta l’hanno data in modo egregio, oltre a Luca Mercalli, gli attori locali (amministratori pubblici e imprenditori) intervenuti nella sezione “Sguardi dall’interno”: Paolo Bottero, Marco Cucchietti, Andrea Dematteis, Luca Fasano, Adriano Oberto ed Elisa Pécar. Si tratta di persone tutte impegnate a sviluppare attività innovative sotto l’aspetto tecnico e gestionale. Quindi a fare in montagna quello che nell’immaginario comune si può solo fare in città. Ma a farlo in modo diverso, perché strettamente legato alle risorse e alle esperienze specifiche che fanno la diversità della montagna.
Dunque i “diversi e uguali” sono già una realtà? Purtroppo non del tutto, perché è parso evidente come all’uguaglianza nelle capacità tecnologiche e organizzative individuali e collettive locali non s’accompagni una parità di condizioni infrastrutturali (p. es. la banda larga, la logistica), né un intervento pubblico sulle condizioni sfavorevoli di contesto, capace di mettere le famiglie e le imprese in condizioni simili a quelle di cui gode chi vive e opera nelle pianure. Dal resoconto di queste pur positive esperienze è parso evidente che una vera uguaglianza si potrà avere solo con quelle politiche di capacitazione (capabilities) che l’economista Amartya Sen considera giustamente come costitutive delle libertà sostanziali e quindi come un diritto delle popolazioni e dei territori svantaggiati
Le testimonianze degli operatori locali sono state importanti perché hanno dimostrato che città e montagna possono convergere verso modelli funzionali e organizzativi comuni per quanto riguarda l’economia e la società, mantenendo e accentuando la loro diversità per quanto riguarda le risorse locali utilizzate, la qualità dei prodotti e della vita. Hanno però anche mostrato che tutto ciò avviene oggi in misura molto limitata, mancando un’uguaglianza delle opportunità e soprattutto un assetto istituzionale e normativo, da cui potrebbero derivare politiche rivolte a creare le condizioni di questa uguaglianza
Il discorso è lo stesso se passiamo a parlare dell’organizzazione del territorio, delle forme dell’insediarsi e dell’abitare in un ambiente dotato di particolare valore ambientale e paesaggistico. Come ci hanno ricordato Antonio De Rossi e Luca Mercalli, nella montagna si può sperimentare un modo di vita urbano nuovo, che unisce innovazione tecnologica, risparmio energetico, tutela del patrimonio e dell’ambiente, estetica architettonica e paesaggistica. Dunque anche qui una città diversa (potenzialmente migliore), ma che va resa uguale come servizi, accessibilità, pari opportunità. Regioni alpine come il Tirolo, l’Engadina e il Vorarlberg ce ne forniscono già degli esempi.
In conclusione il problema è al tempo stesso culturale, istituzionale e politico. Occorre abbandonare i vecchi stereotipi della montagna puramente rurale e terreno di gioco delle città e prendere atto di quello che oggi essa è veramente nelle sue potenzialità e nelle aspirazioni dei suoi abitanti più dinamici e innovativi. Ma questo – come ci hanno ricordato gli interventi di Sergio Reolon, Marcella Morandini, Enrico Borghi e Aldo Reschigna, e come dimostrano le performance delle nostre province e regioni autonome – richiede maggiori poteri di autogoverno (autonomia tributaria compresa), sostitutivi delle vecchie e poco efficaci politiche di riequilibrio e di compensazione dello stato welfarista vecchia maniera.
Qui si dovrebbe aprire un discorso sul possibile ruolo di enti intermedi come le comunità montane (nel convegno validamente rappresentate da Enrico Borghi e Maurizio Piatti e richiamate da Marco Balagna), ma sarebbe un discorso troppo lungo, che occorrerà riprendere in un’altra sede.
Un’altra idea importante che qui mi limito a ricordare brevemente è quella, suggerita da Valentino Castellani, della costruzione di una visione progettuale comune a chi abita e opera in montagna e nell’avampaese pedemontano piemontese, sotto forma di un piano strategico gestito dal basso (dagli stakeholder), sotto la leadership della Regione. Lo proporremo alla Regione (che al convegno era rappresentata da Roberto Vaglio) e nel frattempo Dislivelli potrebbe cominciare a individuare gli stakeholder e a metterli in relazione tra loro, dando inizio a quella rete che nel mio intervento introduttivo avevo chiamato piè-montana.
Chiudo con il bel pensiero che Elisa Pécar ha offerto alla nostra riflessione: «La città e la montagna sono una cosa sola, perché noi siamo una cosa sola».
Giuseppe Dematteis