Enrico Camanni, Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti, Editori Laterza 2017, pp. 278, 19 euro
Tutti pazzi per Giusto Gervasutti. Dopo le celebrazioni per il 70° della scomparsa del grande alpinista friulano-piemontese ci aspettavamo che il popolo della montagna – per lo meno la generazione di mezzo, ché oggi i più giovani conoscono a malapena il nome di Reinhold Messner e più indietro non vanno – fosse percorso da un fremito. E così è stato, solo che, inaspettatamente, il brivido si è trasformato in febbre e ormai dilaga in contagio. Insomma, di colpo sembra essersi risvegliato l’interesse per l’alpinismo del passato. Per primo, sul web, è apparso uno studio molto interessante del torinese Carlo Crovella, cui spetta il merito di essere riuscito a scovare documenti di prima mano. E da poco, per i tipi di Laterza e per mano di Enrico Camanni, è uscito Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti, un saggio storico che, con gli apparati finali, tocca le 270 pagine. Un libro che invita alla lettura e mostra quasi la forma di un dramma radiofonico. Una di quelle opere che, quand’eravamo bambini, prima che in casa arrivasse la tivù, ci inchiodavano a lungo davanti alla radio. Insomma, più che il classico saggio per specialisti, Camanni ha trasformato il volume in un racconto avvincente. Idea senz’altro apprezzabile, in tempi in cui la lettura su carta sta diventando un optional anche per gli appassionati di montagna.
Ne è venuta fuori una storia importante, nella quale l’autore non mette a disposizione del lettore solo la propria capacità di scrittura, ma mostra un coinvolgimento profondo con la vicenda. D’altra parte Gervasutti è stato una figura di riferimento per almeno due generazioni di alpinisti piemontesi, e Enrico Camanni ha percorso per anni le vie di scalata di quello che, assieme a Gabriele Boccalatte, può essere ancora oggi considerato il più ammirato e amato dei capiscuola subalpini negli anni tra le due guerre mondiali. Non solo: come tanti suoi coetanei, negli anni ruggenti delle scalate giovanili Enrico si sarà di sicuro letto e riletto il libro dello scalatore di Cervignano del Friuli, ne avrà subito il fascino e certamente avrà interrogato quelle pagine provando a indagare la complessa personalità di Giusto. E ovviamente (e questo lo sappiamo per certo), come tutti gli appassionati di storia dell’alpinismo, si è trovato di fronte a una serie di misteri insoluti. Cosa faceva, nella vita di tutti i giorni, Gervasutti? Perché era venuto a Torino? In che rapporti era con il Club Alpino (anzi: con il Centro Alpinistico Italiano) del ventennio e con l’autorità politica? Perché, nel suo libro biografico uscito nel 1945, un anno prima della morte, aveva omesso dettagli e particolari importanti, fondamentali perché il lettore potesse inquadrare la figura dell’autore nel contesto torinese degli anni ’30 e ’40? E inoltre, cosa si celava dietro la costante inquietudine di un personaggio assunto troppo presto nella mitologia alpinistica, in virtù dell’incontenibile ammirazione dei suoi compagni di cordata e dagli amici?
Il lavoro di indagine, tra i pochi documenti inediti, la rilettura di ogni rigo scritto da Gervasutti, le interviste agli ultimi testimoni, la consultazione accurata dei lavori precedenti – non ultimo il film del regista triestino Giorgio Gregorio (Giusto Gervasutti – Il solitario signore delle pareti, 2009) – hanno impegnato l’autore per mesi. Anche perché il trascorrere dei decenni e la mancanza di ricerche negli anni in cui sarebbe stato possibile ricavare dati e testimonianze importanti hanno costituito senz’altro uno svantaggio non da poco, per il lavoro di ricostruzione.
In ogni caso, adesso possiamo ritenerci più soddisfatti. Gran parte della curiosità legata al personaggio Gervasutti è stata finalmente soddisfatta. E ci si può abbandonare alla piacevolezza della lettura di una vicenda che Enrico Camanni fa sapientemente cominciare già nel 1910, legandola al debutto alpinistico di un altro grande alpinista dell’epoca: Umberto Balestreri. Ma in questo libro nulla è casuale, e anche l’incipit ha un suo perché. E, volutamente, non saranno queste brevi note e svelarvelo.
Roberto Mantovani