Anche se a metà marzo ha nevicato sulle prime fioriture di alberi da frutta della pianura, quello appena terminato sarà ricordato come uno degli inverni più caldi e meno nevosi di sempre. In molti comprensori sciistici, non solo nelle Alpi Occidentali, la neve si è vista solo a partire da gennaio compromettendo così gran parte della stagione. Inoltre, le alte temperature a lungo non hanno permesso di fare ricorso a quello che molti continuano a considerare la panacea agli effetti del cambiamento climatico, l’innevamento artificiale. Secondo diverse fonti, il tardivo inizio dell’inverno e la mancanza di neve hanno provocato perdite di fatturato fino a oltre il 50%, considerato che l’attività a cavallo delle vacanze natalizie rappresenta il periodo di maggior guadagno dell’anno. L’inizio negativo della stagione pone ancora una volta il turismo invernale di fronte a una serie di sfide. Le diverse regioni alpine hanno reagito alla mancanza di neve e all’inverno anomalo in modo differenziato, ma in generale, al di là di poche situazioni puntuali, nonostante la crescente consapevolezza del problema, non si va oltre i buoni propositi e si pensa di poter addomesticare la montagna e il clima a proprio piacimento riproponendo le soluzioni del passato: nuovi impianti, nuove tecnologie, nuove e più grandi infrastrutture.

Qua e là si è fatto ricorso a strategie quantomeno bizzarre: se in Italia l’associazione nazionale degli impianti a fune ha chiesto il riconoscimento dello stato di calamità naturale, con la conseguente adozione di misure straordinarie di sostegno del settore, in Svizzera si è assistito a un exploit di attività sportive come la mountain bike e il golf anche in inverno. In Francia la zona sciistica di Sainte-Foy ha fatto trasportare in elicottero 100 tonnellate di neve artificiale nel giro di due giorni. Stessa soluzione adottata vanamente qualche inverno fa per innevare le piste di Folgaria in Trentino. Per rimanere al Piemonte, in molte stazioni sciistiche in un primo momento non si è potuto produrre neve artificiale per le alte temperature; quando queste si sono abbassate ci si è accorti della mancanza d’acqua (strano in un inverno senza precipitazioni…) e fatto ricorso al trasporto con cisterne dal fondovalle (è successo lo scorso gennaio a Prato Nevoso). E non si contano le richieste di costruire nuovi invasi in funzione dei cannoni da neve.
Le previsioni sulle tendenze climatiche fanno supporre che le condizioni negative di quest’anno potrebbero ripetersi con una frequenza maggiore. Eppure, nonostante il 2015 sia stato di gran lunga l’anno più caldo dall’inizio delle rilevazioni, dall’Austria giunge notizia che un funzionario di una società funiviaria e un ricercatore turistico hanno pubblicato un’analisi che ha suscitato scalpore: in base ad una loro interpretazione di stazioni meteorologiche in alta montagna, negli ultimi 30 anni avremmo assistito a inverni addirittura più freddi! Il cambiamento climatico sarebbe quindi limitato alle aree extra-alpine. Studio che si è rivelato poco credibile in quanto gli autori avrebbero preso in considerazione, manipolandoli opportunamente, i dati di poche stazioni e non per tutta la durata della stagione. Il messaggio che si voleva far passare, una sorta di politica della rassicurazione, avrebbe compromesso le già precarie strategie di diversificazione dell’offerta turistica volte ad assicurare una sostenibilità economica a lungo termine.
È prevedibile che sempre più impianti di risalita dovranno chiudere i battenti. Cosa ne sarà di questi impianti dismessi non è chiaro e la cosa pare non preoccupare. Affinché anche d’inverno il turismo alpino possa essere economicamente sostenibile a lungo termine non si deve insistere con le vecchie ricette, sono invece richieste nuove strategie orientate alle diverse situazioni delle singole destinazioni. Oggi solo chi pensa in modo innovativo potrà guadagnarsi gli ospiti di domani. E non è di certo innovativo limitarsi a proporre nuove infrastrutture o richiedere lo stato di calamità naturale.
Francesco Pastorelli