La migliore dimostrazione della necessità di un nuovo patto tra Torino e le Alpi – fondato sulla condivisione di saperi, visioni e politiche comuni – è data dalle dinamiche di urbanizzazione del territorio circostante la capitale subalpina. Nell’immaginario collettivo, tra Torino e le vicine montagne continua a sussistere una radicale e ontologica differenza, come se si trattasse di due poli idealtipici antitetici. In realtà è sufficiente salire durante una bella giornata di sole e di vento sul Musiné, o sul Monte San Giorgio sopra Piossasco, per accorgersi che la realtà fenomenica delle cose è tutt’altra.
In maniera indifferente rispetto a confini comunali e municipalismi di lunga durata, la lunga fiumana dell’urbanizzato – quasi un ghiacciaio del quaternario al rovescio – esce dall’area metropolitana tradizionale e risale gli assi vallivi, avvolgendo al contempo fasce pedemontane e anfiteatri morenici. Se si esclude la pausa agricola di Sant’Antonio di Ranverso, il costruito dà vita a una sorta di continuum urbanizzato che da Torino, attraverso Collegno, Grugliasco e Rivoli, raggiunge Avigliana, per poi continuare praticamente fino a Borgone e Bussoleno. Verso sud-ovest la situazione è la medesima: una città lineare e continua che da Torino, attraversando i centri di Beinasco, Orbassano e Piossasco, raggiunge infine Pinerolo, per poi continuare in direzione degli imbocchi vallivi di Pellice e Chisone. E da Piossasco muove un altro brano di città diffusa, che per mezzo di Bruino, Sangano e Trana giunge fino a Giaveno connettendosi con Avigliana. E si potrebbe continuare.
Che cosa si può dire di questa strana città a forma di polipo, che nessuno ha nemmeno mai provato a disegnare e concettualizzare, e che avviluppa montagne, fondovalli e pedemonti? Un primo dato concerne sicuramente le criticità ambientali, funzionali e paesaggistiche, che oramai da tempo sono sotto gli occhi di tutti. Non si tratta solamente di un problema di consumo di suolo, anche se l’evidenza di tale aspetto può essere strumentale per portare all’attenzione collettiva altre questioni per certi versi ancora più critiche. Il caso di Avigliana, con il suo trend urbanizzativo tra i più alti della provincia, è da questo punto di vista particolarmente eclatante. In questo quadro, la lotta alla Tav rischia di trasformarsi in atto consolatorio e autoassolutorio rispetto alle politiche locali degli ultimi decenni.
In realtà il problema principale è che questa dilatata città che penetra nelle montagne è sorta indipendentemente da una visione progettuale di grande scala. Il giustapporsi sempre più pervasivo del costruito è andato a scapito di un pensiero d’insieme sulla mobilità, sulle configurazioni paesistiche, sul disegno delle strutturazioni insediative. Ciò che manca, innanzitutto, è una lente che permetta ad amministratori e cittadini di vedere in maniera corretta e pertinente le vere problematicità di questa nuova città che dal piano trascende nelle montagne. Da questo punto di vista, la sottovalutazione e la scarsa conoscenza del progetto del “Servizio ferroviario metropolitano” – ossia dell’utilizzo del sistema delle linee ferroviarie storiche incentrate su Torino come metrò a scala metropolitana, che a giudizio di chi scrive rappresenta la più importante progettualità di questi anni, l’unica che potrebbe risolvere problemi di inquinamento e di congestione – rappresenta un’ottima cartina di tornasole per verificare l’assenza di visioni d’insieme. La realtà dell’area metropolitana è purtroppo quella di una miriade di singole entità territoriali che continuano a guardare esclusivamente il proprio ombelico, senza riuscire a costruire visioni strategiche adeguate ai problemi oggi sul tavolo. Ma senza questa capacità, oramai non si è nemmeno più in grado di competere.
Eppure l’“annessione” da parte di Torino delle montagne e valli contigue non è necessariamente solo una criticità, e potrebbe ribaltarsi anche in opportunità, se ci fossero una visione e un progetto. Se la città imbastardisce le montagne, le montagne potrebbero aiutare Torino a imbastardirsi, ad assumere significati e valenze inedite. Innanzitutto in termini di opportunità ambientali, paesaggistiche, insediative. Basterebbe alzare gli occhi. In fondo era più consapevole la Torino dell’Ottocento che quella contemporanea del significato profondo dell’essere edificata sul conoide di deiezione della Dora. Una città che poneva le proprie montagne come fondale dei suoi boulevard, che sapeva valorizzarne le acque e le risorse.
Pensare una Torino che contiene al suo interno il Musiné, il Monte San Giorgio, l’anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana, il Monte Pirchiriano con la Sacra, fiumi e torrenti, non vuole essere una semplice battuta ad effetto. È già la realtà di oggi. Tale spazio di meticciato di città e montagna potrebbe offrire opportunità di vita e insediative alternative a quelle delle tradizionali conurbazioni metropolitane: riconnessione “verticale” dei luoghi del lavoro e dell’abitare; compenetrazione “orizzontale” delle trame urbanizzate e naturali; compresenza e commistione di ordini spaziali, temporali e culturali diversi; possibilità di praticare attività e stili di vita molteplici e differenti. Un progetto di intreccio tra città e montagna che dovrebbe muovere innanzitutto da un ripensamento e da un restauro dei paesaggi dell’intero orizzonte metropolitano.
A Berlino si è pensato di utilizzare la grande area abbandonata nel cuore della città dell’aeroporto di Tempelhof per costruire una montagna; a Torino le montagne le abbiamo già dentro la città e rischiamo di non accorgercene.
Antonio De Rossi
PS. Turinetto Soprano era il nome del villaggio alpino realizzato dal CAI per l’Esposizione internazionale di Torino del 1911.