Ho girato un po’ tutte le Alpi, dalle Marittime alle Dolomiti, ho visto montagne e valli meravigliose, posti davvero indimenticabili. Eppure ogni volta che risalgo la strada tortuosa della Val Grande di Lanzo, ogni volta che riconosco a uno a uno i massi, le cime, i colli e le borgate della mia valle, mi prende qualcosa dentro che è ben difficile da definire. Mi rivedo bambino scorrazzare felice tra i prati e i boschi di Breno, rivivo a una a una le gite e le passeggiate fra le pinete e i pascoli, con accanto l’entusiasmo infantile di mio padre per tutto ciò che è bello e pulito.
Poi il fanciullo, il bambino rimane incantato la prima volta che sale a un colle e scopre una selva di cime, di vette, di colli, mentre laggiù è l’ombra della sera, la valle con gli amici, gli affetti e la mamma che aspetta per la cena.
Ricordi di innumerevoli gite, di lunghe camminate su e giù per creste e valloni, alla scoperta del mistero rappresentato da un colle, da una cima, da un ghiacciaio…
Poi lo spirito dell’avventura prende il sopravvento, ed eccomi alla ricerca dei massi disseminati sul fondovalle, mentre, fra gli sguardi stupiti dei valligiani, mi arrabatto disperatamente con le scarpette da tennis per superare qualche breve passaggio. A nulla valgono i loro paterni ammonimenti; ma le grandi montagne, la roccia, le scalate sono ancora lontane, appartengono ancora alla fantasia….
Poi la prima salita vera: la cresta dell’Ometto all’Uja di Mondrone. Sulla cima, a cavallo tra le due valli, di fronte a centinaia di cime sconosciute, a tu per tu con quello spazio infinito, l’amico e io ci sentivamo i signori dell’universo. Quasi con commozione riconoscemmo le borgate della nostra valle, che alla mattina alle due avevamo lasciato per portarci con una marcia, che adesso giudico estenuante, alla base dell’Uja.
Oggi sono tornato nella valle. Ho aperto con numerosi e fortissimi amici un gran numero di vie sulle bastionate e sui vari torrioni: vie dure, altamente tecniche, degne di ripetizioni. Sono lontani i tempi in cui ero il terrore delle madri dei miei amici, che cercavo di trascinare in qualche avventurosa scalata; sono lontani i passaggi sui massi con le scarpette da tennis, con uscite disperate “al limite del volo”.
Rimpianti? Forse.
Eppure ancora oggi, in qualche caotico pomeriggio di ferragosto, lascio la confusione del fondovalle e mi inerpico su per il sentiero che fra il fitto bosco di castagni conduce alle baite del Bec di Mea. Ritrovo la fresca fontana, ritrovo il muretto di sassi, nulla è cambiato, ritrovo qualcosa di me stesso che cerco disperatamente di non lasciarmi sfuggire. Salgo sul roccione che domina tutta la valle e per un po’ mi guardo intorno.
Laggiù la grande e imponente testata… il pilastro… a uno a uno i colli, le cime, i gruppi di grange…
«Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera rupe, è troppo bello per pensarci ancora» (Cesare Pavese).
Gian Piero Motti, tratto da “Solitudine al Mont Blanc du Tacul”, in Rivista mensile del Cai, giugno 1970