Oggi chi percorre i sentieri dell’Alto Adige incontra segnali scritti solo in tedesco. Perché l’Alpen verein südtirol (Avs) o le associazioni turistiche locali, in violazione all’art. 8 dello Statuto di Autonomia, che prevede esplicitamente il bilinguismo nella toponomastica, hanno deciso di installare cartelli solo in lingua teutonica. Come reazione a questo “colpo di mano” è stato a suo tempo presentato un esposto all’autorità giudiziaria per valutare eventuali violazioni delle leggi vigenti (destinato all’archiviazione perché considerato “un problema politico e non giudiziario).
Tuttavia, è stato avviato parallelamente un procedimento presso la Corte dei Conti per denunciare il danno erariale e la frode a seguito del finanziamento di circa tre milioni di euro concesso all’Avs senza alcuna gara di appalto, per un progetto di mappatura digitale dei sentieri. Finanziamento usato indebitamente anche per la cartellonistica in questione.
Questo problema della toponomastica in montagna è solo il prologo di una battaglia che si prepara nel Consiglio provinciale per una legge che porterebbe alla cancellazione ufficiale della gran parte dei nomi italiani. Battaglia ignorata dalle reti mediatiche e dai giornali nazionali, a dimostrazione dello scarso interesse suscitato oltre i confini provinciali. Anche se la diatriba potrebbe diventare localmente esplosiva nel difficile equilibrio interetnico.

A questo punto una breve digressione storica è necessaria per capire l’origine della questione “toponomastica” e meglio inquadrare la situazione odierna. Il problema risale al ventennio fascista, quando, nel 1923, fu imposta ufficialmente la nuova toponomastica solo in lingua italiana, nell’ambito del programma di italianizzazione di queste terre con l’obiettivo di sradicare la lingua e la cultura tedesca e ladina. La fantasia non mancò nell’italianizzazione di molti nomi, inclusi i cognomi delle famiglie, fino a rasentare in alcuni casi il ridicolo. Le imposizioni nazionalistiche, comprensibili in un momento in cui il nazionalismo permeava tutte le nazioni europee, contribuirono significativamente a creare le fratture fra i gruppi etnici che persistono ancora oggi.
Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’Accordo di Parigi, venne ufficialmente ripristinato il  bilinguismo nella toponomastica, regolato nel Trattato De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946, che divenne parte integrante dell’accordo di Parigi del 1947 che stabilisce “l’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica”.
Per chi viene da fuori, l’argomento sembra assurdo, fuori dal tempo, soprattutto oggi che si parla di Europa senza confini. Infatti, se il fascismo aveva portato avanti un’italianizzazione forzata, oggi per converso sembra si vogliano portare indietro le lancette dell’orologio prima della Grande Guerra. Del resto le formazioni politiche dell’estrema destra tedesca ritengono troppo arrendevole la posizione della Svp e chiedono una più drastica pulizia dei toponimi italiani, mantenendo solo quelli che hanno un’origine “storica” pre-tedesca. Ma ottant’anni di presenza italiana non sono anch’essi storia? Dalla parte opposta va detto che esponenti della destra italiana sono altrettanto contrari a una revisione condivisa della toponomastica, pretendendo ovunque il mantenimento del bilinguismo.
Con buonsenso, senza lasciarsi trascinare dagli opposti estremismi, la soluzione sarebbe a portata di mano: infatti molti nomi italiani, per esempio quelli dei masi, non hanno più senso di esistere in quanto spesso sono traduzioni forzate di cognomi di famiglia, ma nel contempo è assurdo e arrogante cancellare nomi italiani divenuti di uso comune, solo perché creati in epoca fascista. Se in alcuni casi l’uso del solo toponimo in lingua tedesca o ladina può essere accettato, è comunque inaccettabile la cancellazione sistematica, com’è stato fatto, di indicazioni geografiche comuni, quali passo, lago, malga, rifugio, ecc.
Roberto Scala