«Dopo l’alluvione del 1987 si pensò – sostiene Paolo Ciapparelli – che l’agricoltura valtellinese avrebbe potuto salvarsi aiutando le grosse latterie e così fu incentivato anche per questa valle alpina il modello delle grandi stalle della Pianura Padana». Così verso la metà degli anni ’90 la Camera di Commercio di Sondrio decise di creare due Dop per favorire la crescita di prezzo e lo smercio dei formaggi della provincia. Si scelse a tale scopo il nome del più noto e apprezzato formaggio valtellinese, il Bitto, un grasso d’alpe di altissima qualità destinato al commercio e a una lunga conservazione. È documentato che dalla notte dei tempi il formaggio Bitto venisse prodotto nelle sole valli orobiche con le adeguate caratteristiche di pascolo, ma nell’atto di richiedere la Dop, a metà degli anni ’90, fu invece dichiarato che il Bitto fosse sempre stato prodotto nell’intera provincia di Sondrio.
Il nuovo Bitto, che ora aveva i numeri per la grande distribuzione (si ipotizzavano 2000 forme l’anno), colonizzò gli scaffali dei supermercati. L’estensione della produzione del Bitto a zone nuove decretò, per di più, l’abbandono di molte produzioni casearie tradizionali, quali Federia, Val di Lei, Scimudin, Crot.
Produrre il Bitto seguendo gli antichi metodi si rivelò però troppo oneroso e difficile, così il disciplinare della Dop si è evoluto nel corso degli anni consentendo, tra l’altro, mangimi e fermenti e rendendo persino opzionale il latte di capra. Un cambio di ricetta che ha visto uscire dal consorzio del Bitto Dop gli indignati produttori storici, che già dal 1994 si erano associati. I produttori fedeli alla tradizione utilizzarono il nome Bitto Storico per il loro formaggio, Presidio Slow Food dal 2002.
Dopo varie controversie nel 2015 ci fu una svolta. L’assessore alle politiche agricole della Lombardia Gianni Fava convocò i produttori del Bitto Storico, li avvertì che il Consorzio della Dop aveva sporto denuncia al ministero e li intimò di non utilizzare più il nome Bitto per il loro formaggio.
Così questi partigiani della tradizione, guidati da Paolo Ciapparelli, furono costretti a inventarsi un nome per il loro formaggio, che dal 2016 si chiama pertanto “Storico Ribelle”.
«Non è la prima volta – commenta l’economista Marco Vitale in una lettera pubblicata sulla rivista Le Montagne Divertenti (Marco Vitale, Nemici delle proprie valli, in Le Montagne Divertenti n. 50) – che succede qualche cosa del genere e non sarà l’ultima. La sapienza contadina e artigianale, favorita da pascoli unici, accumulata e perfezionata nei tempi lunghi, produce prodotti eccelsi che non possono che essere di nicchia e per quantità limitate. Il successo commerciale suscita comprensibili appetiti economici e parte così l’operazione per allargare la produzione e lo smercio, oltre i limiti naturali. Così il prodotto perde gradualmente il suo profilo e alcune delle sue più peculiari caratteristiche, per poter fruire di un maggiore smercio […]. Ciò che non è né legittimo né comprensibile è che si cerchi di impedire agli eroi che vogliono continuare a produrre con gli antichi protocolli, di farlo liberamente, utilizzando il nome storico che è il frutto del tempo e delle fatiche di migliaia di coltivatori e allevatori e che, quindi, è un bene comune. Quando seppi, anni fa, che, per qualche inghippo legale, questi non potevano neppure più usare la denominazione “Bitto storico”, che era una soluzione equa e civile, ne fui molto addolorato».
Se l’esproprio di nome è già di per sé paradossale, a questo si aggiunge l’azione recente delle istituzioni locali, guidate da alcuni dei loro rappresentanti, prima alleati dei produttori storici poi diventati epigoni della Dop e acerrimi nemici dello Storico Ribelle. Singolare è il fatto che tali politici non solo osteggino lo Storico Ribelle, ma che con ogni mezzo a loro disposizione, e sempre con maggior determinazione, si stiano impegnando per una damnatio memoriae di quel nome e con esso della tormentata storia recente del Bitto. In questo vortice perverso ci sono finito pure io con la mia piccola casa editrice: i sindaci delle valli del Bitto, infatti, non hanno pagato le copie prenotate della guida di scialpinismo Val Gerola e Albaredo. Tutte le cime con gli sci solo perché nella sua introduzione al territorio si accenna brevemente alla storia del Bitto, unico prodotto tipico di quelle valli. Un tentativo di boicottaggio, lesivo della libertà di stampa, o quantomeno punitivo, poiché il danno economico derivante da questa azione ha l’obiettivo di mettere in difficoltà la casa editrice rea di apologia dello Storico Ribelle. Emblema dell’attuale clima politico valtellinese è la dichiarazione in merito alla vicenda del sindaco di Albaredo, Patrizio Del Nero, ripetuta come un mantra pure dai suoi colleghi e riportata acriticamente dai giornali: «Parliamo di una guida turistica cioè di un prodotto commerciale e non editoriale: appellarsi alla libertà di stampa in questo caso non ha senso».
Forse quello dello Storico Ribelle, ad opera dei pastori-partigiani della val Gerola, è stato in Valtellina l’ultimo atto di successo di ribellione al sopruso del potere. In quel nome non c’è oggi solo l’eccellenza del formaggio tradizionale delle valli del Bitto, ma c’è anche un messaggio morale: quello di non darla vinta alla mediocrità di alcuni politici che trionfano nel campo dell’amministrazione pubblica e che assomigliano sempre più alla mediocrità di certi formaggi che trionfano nel mercato del consumismo contraffatto.
Beno