Enrico Camanni, Daniele Ollier, Anuk, editrice Liaison, Courmayeur. 58 pagine, 12,00 euro.
Val Ferret. E’ inverno. Ci sono un uomo magro ed un cane che corrono sulla neve bianca. Sotto il Monte Bianco. Quando l’editore Cesare Bieller, nato a Courmayeur e diplomatico di professione, rivede l’uomo – Daniele Ollier, finanziere specializzato in soccorso alpino e addestratore di cani da slavina – gli chiede come sta il suo cane. L’uomo è timido ma l’editore capisce che Daniele una storia ce l’ha dentro da un po’.
Ci vuole solo qualcuno dotato di pazienza per scavarci dentro. Per poi trascriverla. Enrico Camanni lo fa con tatto e la sua capacità di usare solo le parole adatte. Anuk è un libro a due autori e a due voci: una umana, dell’addestratore, e quella animale, del cane. All’inizio non capisci subito chi sia a parlare per primo. Lo intuisci, e sembra umano.
Il cane comincia a raccontare da una pallina gialla e da un prato. E’ il suo gioco preferito. E’ un essere molto vitale, con una paura dannata del temporale. Quando lo sente rimbombare in lontananza, trema. Un giorno gli strappano via prato e palla gialla. Capisce subito che è meglio far finta di dormire, quando è in macchina. Anche se non sa come finirà. Perché gli animali non sanno mai chi li prenderà. Dopo due mesi di canile, arriva un uomo. Si guardano, si piacciono anche se non di un amore esplosivo, e si prendono.
I grandi amori, a volte, bruciano lentamente. La prima immagine che Anuk vede è il Monte Bianco. Un sasso che riempie addirittura il cielo. Troppo lontano anche per lui.
Inizia l’addestramento, il vero percorso in cui uomo e animale si cuciono addosso una vita.
L’addestramento sembra semplice. Camanni usa le parole con estrema semplicità ma non ne sbaglia una. Anuk viene addestrato come gli altri cani, mediante lo stimolo-premio. Ad ogni prova, viene compensato con la sua pallina. Prima lo abituano a ritrovare Pierre, e poi un qualunque altro uomo, dentro una buca intanata nella neve. Anuk riesce a dominare gli stimoli. Forse è Pierre che ha capito come fare per tenerli a bada.
Molti non sanno che – oggi – nonostante giacche tecniche, bollettini nivologici, telefoni satellitari e computer, morire sotto una valanga è come morirci nell’Ottocento. Il Dottor Hermann Brugger dell’università di Innsbruck ha calcolato quattro minuti, il tempo di un caffè, per soffocare. Il cane – quando scende dall’elicottero – ha soltanto quelli per trovare il suo uomo. Altrimenti muore.
Il 3 luglio del 1999 è la fine del libro. Che non si svela perché un libro così, leggero come neve, possiede lo stesso urto finale della valanga. Picchia sulla testa come un fabbro. E il cuore fa un tuffo.
Alberto Pezzini