Il rifugio serve ad allontanare il mondo, non a sostituirlo. Il rifugio si nutre di distanza, e la distanza non ha pareti. Il rifugio non prevede residenti, solo ospiti di passaggio. Ci si rifugia sempre da qualcosa, a volte dalla vita stessa, oppure da qualcuno, certe volte da se stessi, ma si fugge sapendo che bisognerà tornare.
Se diventa casa non è più rifugio. Anche il più solido è un ricovero provvisorio. Il rifugio è riparo da minaccia temporanea: se cessa la minaccia cessa la funzione. Un rifugio è sé stesso nella bufera, nel temporale, nella notte, nel bisogno. Per qualcuno nella catastrofe. Quando il 21 dicembre 2012 la profezia Maya paventò la fine del mondo, qualcuno si preparò a fuggire in un rifugio di alta montagna.
«Ma gli uomini dai sensi pesanti non sapranno niente, non indovineranno niente, non comprenderanno i muggiti tristi delle giovenche prigioniere…», profetizzava Samivel mezzo secolo fa. Ora la situazione si è aggravata, le temperature s’impennano a causa dei gas serra, fa sempre più caldo, fondono i ghiacci e salgono le acque degli oceani. Oggi si legittimano nuove profezie. Se il riscaldamento climatico sciogliesse i ghiacciai terrestri e i mari salissero di duemila metri, le valli diventerebbero fiordi e le cime giganteschi scogli. Il Monte Bianco misurerebbe duemilaottocento metri sul livello del mare, Cervinia sarebbe città di porto e il Breuil il suo golfo. Le Dolomiti tornerebbero all’antica natura di scogliere coralline, come al tempo della Tetide, prima che gli schiacciamenti della crosta terrestre le promuovessero all’altezza delle montagne.
I rifugi montani offrirebbero l’ultimo rifugio alle donne e agli uomini sopravvissuti al disgelo, e luce per i naviganti della notte. Le imbarcazioni del mare alpino troverebbero la via grazie ai fari-rifugio e attraccherebbero presso le loro insenature rocciose. In tutte le capanne si mangerebbe pesce fresco e gli scampati all’effetto serra sarebbero alpinisti, pescatori e marinai. Guardiani del faro e custodi di rifugio.
Accadde già nei tempi dei tempi, quando i monti non erano ancora scolpiti dalle punte di roccia e feriti dai tagli dei crepacci, ma formavano una giogaia uniforme che univa in un abbraccio la cerchia delle Alpi. Le valli godevano di un clima particolarmente mite, «così che si potevano tenere gli armenti agli alti pascoli – racconta la leggenda –, a circa duemila metri d’altezza, fin quasi a Natale. Immense praterie fiorite si stendevano sulle pendici delle montagne, i pastori vivevano nella più felice abbondanza. Il latte era in sì gran copia da formare ruscelletti, nei quali gli agnelli si dissetavano. I ragazzi giocavano ai birilli con pallottole di burro e ai dischi con forme di formaggio. Tutti andavano d’amore e d’accordo; il male, l’invidia, la cattiveria erano sconosciuti».
Nessuno sentiva bisogno di rifugio, perché non c’era minaccia. Soltanto più tardi, quando gli uomini infransero la legge di Dio e i ghiacciai inghiottirono il paradiso alpestre, nacque la paura delle cime. Fu raffreddamento globale, una fuga all’inverso.
Una volta, dice un’altra leggenda, dove oggi scorrono i ghiacciai del Bernina c’era un grande pascolo di proprietà del valligiano Rospo, uomo brutto, ricco e avaro. Un giorno, mentre pascolava le greggi in compagnia d’un servitore, venne avvicinato da un mendicante che gli chiese da mangiare. Per mostrare disprezzo al poveruomo il Rospo dispose di versargli del latte nel truogolo delle bestie, ma il servo ignorò l’ordine e offrì al mendicante la sua scodella di latte appena munto. Il mendicante bevve, ringraziò, raccomandò al servo di fuggire dal pascolo del Bernina e sparì. Il garzone non se lo fece ripetere: prese le sue cose e scappò, ignorando le urla del padrone. Allora il tempo cambiò. Il cielo si coprì di nero metallo, si alzò il vento dell’ovest e cominciò a nevicare. Venne giù per giorni e giorni, finché la malga fu circondata dal mare di ghiaccio…
Oggi non succederebbe più, oggi si può prevedere anche il danno. Il peggior nemico del rifugio contemporaneo è la certezza del maltempo, o del tempo bello, specularmente. In un caso si dorme soli, nell’altro si resta fuori.
Sono cambiate le forme del rifugio, ma soprattutto le funzioni. Nel corso del Novecento i riti romantici sono stati rimpiazzati da un cerimoniale laico e con il nuovo millennio è arrivato il rifugio cablato e programmato, prenotazione obbligatoria.
Da qualche tempo il nuovo dio dei frequentatori dei rifugi si chiama “meteo”; maschile o femminile, a scelta. Ora sono i computer a guidare le partenze e i ritorni degli alpinisti, non più gli scongiuri e i segni del cielo. Ogni sera d’estate c’è ressa nei rifugi trendy delle Alpi, ma solo con l’alta pressione. Se fa brutto non sale più nessuno. Le previsioni meteorologiche e i capricci delle isobare riempiono i discorsi degli avventori e svuotano i dormitori dei rifugi. Il tutto esaurito diventa un tutto è perduto quando c’è un’ombra di perturbazione in arrivo. Ogni venerdì, dopo l’emissione dell’ultimo bollettino squillano i cellulari:
«Confermiamo: siamo in quattro, forse sei, magari otto».
Oppure:
«Verremo su il prossimo sabato, se farà più bello. Oggi cancelliamo tutto. Questo week end andiamo al mare».
Il rifugio resta vuoto per settimane quando il meteo butta male, perché nessuno si azzarda a dar torto ai meteorologi. È così poco moderna la montagna con il brutto tempo! Non c’è più chi tortura le carte da gioco aspettando una schiarita, chi accarezza le lacrime di pioggia dietro il vetro, chi intona una canzone per allietare gli animi e chi, semplicemente, ama la montagna con qualsiasi tempo…
Enrico Camanni