Nel suo celebre libro “Collasso”, il geografo e antropologo Jared Diamond ha analizzato i fattori che nella storia hanno portato diverse civiltà a sopravvivere alle crisi o a scomparire. Molti sono gli esempi di società che si sono ostinate a perpetuare comportamenti non più sostenibili in ambienti che mutano, e che hanno cessato di esistere: la più nota è la civiltà dell’Isola di Pasqua. Il territorio era suddiviso in minuscoli regni e tra i re locali crebbe la moda di farsi costruire delle gigantesche statue in pietra, i Moai, a simboleggiare la dimensione del loro potere. Mentre l’incremento della popolazione influiva sulla deforestazione e sul consumo di suolo, i re ordinarono la costruzione di Moai sempre più colossali, quasi fosse un modo per rispondere alle difficoltà; ciascuna statua richiedeva l’impiego di centinaia di operai per scavare la roccia e trasportare i monoliti verso la costa. Un eccesso di risorse, già scarse, venne impiegato in questi futili scopi, finché la situazione sociale esplose in guerre fratricide alimentate dalla fame, e fu la fine di un popolo.
È facile supporre che quei re, accecati dal desiderio di conservare uno stile di vita insostenibile, convincessero i sudditi ai sacrifici necessari per erigere i Moai affermando: «Solo costruendo un simbolo divino ancora più grande potremo salvare il nostro regno!».
Per quanto sembri incredibile, nella nostra epoca l’idolatria per l’indifendibile è cresciuta ancora a dismisura. L’assenza di senso della misura è generalizzata; ma nel campo dell’industria turistica spicca particolarmente per l’aggravante dei citati futili motivi. Oggi, mentre il tempo per mitigare il riscaldamento climatico sta scadendo e una serie di eventi catastrofici è innescata dal riscaldamento stesso – estinzioni, migrazioni e guerre, pandemia, diminuzione delle terre agricole e deforestazione –, un ipotetico extraterrestre che capitasse sui nostri monti resterebbe di sale osservando la reazione a tutto questo da parte dell’uomo. Sulle catene montuose, ecco diramarsi migliaia e migliaia di chilometri di strisce di terreno rimodellate dalle ruspe e ricoperte di cristallini di ghiaccio grazie alla costruzione di immense strutture frigorifere all’aperto, in forma di cannoni collegati tra loro da tubature idrauliche e cavi elettrici. Mentre l’aria si fa sempre più mite, vedrebbe quei piccoli regni post-moderni che sono le stazioni sciistiche affidare ai super-freezer il compito di sostituire il cielo nel produrre la neve per diversi mesi di seguito.
Se una civiltà in crisi impegna tante risorse in una tale impresa – si dirà l’extraterrestre -, il risultato sarà certo vitale per la sua sopravvivenza. E in effetti udrà echeggiare per le valli e sui media un grido ripetuto: «Solo gli impianti e le piste da sci possono salvare la montagna!». Quando poi constaterà che cosa è in effetti questo “sci”, ovvero una folla che si fa tirare su da teleferiche di varia foggia e che poi scivola giù sulle strisce ghiacciate artificiali ben cintate ai lati da reticolati arancioni, chi scodinzolando e chi a corpo morto, spesso emettendo urletti compiaciuti, e tutto si conclude dopo qualche ora nella ressa del self-service, finirà per concludere: «Ma questi sono matti!».
Non che l’extraterrestre disprezzi lo sport o le attività ludiche all’aperto, praticate in tutto l’universo, ma proprio per questo continuerebbe a chiedersi: «Con tutte le cose meravigliose che si possono fare, perché questi umani investono più di quello che hanno in un artificio così assurdo?».
Il viaggiatore interstellare ripartirebbe senza risposta. Noi residenti e professionisti della montagna che ci siamo costruiti vita e lavoro nelle Alpi trovando o inventando vie del tutto diverse da quelle descritte, senza bisogno di sovvenzioni pubbliche, di risposte ne conosciamo molte. Sono decenni che esperienze, studi e progetti sulla montagna indicano la possibilità di sviluppare una molteplicità di professioni che necessitano solo di piccole infrastrutture e semmai di conservazione dei paesaggi tradizionali, da cui trarrebbero beneficio; possibilità sempre più evidenti ora che la rete Internet permette di svolgere molti lavori indipendentemente dalla localizzazione. L’ultimo decennio ha visto anche una crescita esponenziale dell’attrazione popolare per i cammini e per molte attività outdoor che non richiedono infrastrutture tecnologiche, ma per lo più il solo mantenimento della sentieristica e del paesaggio. A questa crescente passione si associa un nuovo forte interesse per aspetti culturali che si intrecciano all’esperienza della natura, dalla letteratura alla storia, dalla lettura del paesaggio all’incontro con mestieri tradizionali, fino alla formazione escursionistica e alpinistica. L’invasione estiva della montagna nell’intervallo fra le due ondate pandemiche del 2020 ha mostrato che un grande lavoro educativo alla conoscenza e al rispetto dell’ambiente è urgente. La domanda in questi campi sta probabilmente superando l’offerta, che però può proporsi a un livello qualitativo adeguato solo investendo in una formazione culturale elevata per gli operatori. Se i milioni senza fine che si spendono per continuare ad ampliare e adeguare a standard iper-sofisticati gli impianti sciistici fossero investiti per finanziare i giovani della montagna nei loro corsi di studi e nella formazione esperienziale, il patrimonio umano delle terre alte si dimostrerebbe ben più fruttuoso di quello infrastrutturale sciistico in perenne affanno.
In Italia due terzi del territorio sono montagna. Tra i milioni di persone che lo abitano, la stragrande maggioranza ha già investito in tutt’altro modo rispetto alle stazioni sciistiche; il cui peccato capitale sta nell’aver perseverato in una monocoltura economica pur sapendola totalmente soggetta a condizioni contingenti sempre più spesso contrarie; che le lascia perciò impiccate al suo stesso destino. A differenza di chi piange miseria per commuovere i politici, molti abitanti della montagna sanno che vivere in alto oggi è un privilegio, non una punizione. C’è così tanta bellezza intorno a noi che per sentirci bene ci occorre molta meno “roba” di quella di cui si sente bisogno nevrotico nelle metropoli. Bisogna vederla però, la bellezza, alzando lo testa.
Per tutti noi che abbiamo scelto questa strada per la vita, il vittimismo che in questi mesi di pandemia pretenderebbe di farsi riconoscere come la voce della montagna è a dir poco offensivo. Alcuni interventi per ora prudenti hanno iniziato a farlo notare sui media nazionali, ma la reale dimensione delle forze di opposizione al vecchio modello è ben altra. Come molte passate civiltà, ora tocca a noi adattare le scelte al cambiamento, o collassare.
Franco Michieli, geografo