Nello scorso numero ho presentato uno dei pionieri del “ritorno alla montagna”, Roberto Ghidoni, che con la moglie Vanna nel ’79 lasciò la città di Brescia per trasferirsi in alta Valle Trompia e per vivere immerso nelle montagne che per anni aveva portato nel cuore (leggi la puntata precedente). In montagna, Robi e Vanna hanno allevato mucche, falciato i prati, prodotto burro e formaggio per ben trentun’anni. Oggi rievocano una vita di gioie, fatiche e sorprese attorno al caldo della stube della loro casa di Ludizzo, una torre di epoca medievale da cui si ammirano il fondovalle e i pascoli del territorio di Bovegno.
Di certo, la conoscenza della natura, l’abitudine a trascorrere all’aria aperta molte ore, in tutte le stagioni e sotto ogni tipo di intemperie, la consuetudine alla fatica fisica e alla tenuta mentale di quel tipo di lavoro, svolto 365 giorni all’anno per tre interi decenni, unite a un’incrollabile forza di volontà, hanno indubbiamente contribuito a rendere Robi l’atleta che è diventato (o che è sempre stato) durante e a seguito della sua partecipazione all’impresa estrema della Iditarod Trail Invitational, una competizione che si svolge tutti gli anni in Alaska tra i mesi di febbraio e marzo: tra Anchorage e Nome, atleti provenienti da tutto il mondo provano a percorrere – chi a piedi, chi con gli sci, chi in bici, sul medesimo percorso di chi partecipa all’Iditarod con i cani da slitta – un tragitto lungo 1800 chilometri in completa autosufficienza, con temperature che spesso toccano i -40°C. Ed è proprio a Roberto che, ancora oggi, spetta il record di questa gara a piedi, raggiunto nel 2012 dopo anni di partecipazione e varie vittorie.

Inizia il racconto di questa entusiasmante e a tratti incredibile avventura così: “Così come per il nostro trasferimento in montagna, anche in occasione dell’Alaska è stata la Vita che mi ha mandato messaggi. Io sono del parere che se tu rifiuti questi messaggi o in qualche modo vai loro contro ti bastonano, ti si ritorcono contro. Loro sono lì per darti la possibilità di un cambio. Poi non è detto che l’impresa vada bene o male, ma ascoltare questi messaggi è importante. Nel ’99 successe che una mia amica mi parlò di questa ‘gara pazza’. Io ne ero molto incuriosito, ma in qualche modo mi stavo difendendo da quest’idea di prendervi parte, preso com’ero dal lavoro con le mucche. Ma avevo un sogno dentro, legato al mio essere ulissiaco, al desiderio di libertà e di spazi immensi, ispirato da figure come Amundsen, dai personaggi dei romanzi di Jack London. Attraverso il mio amico biker Willy Mulonia vidi il filmato di questa gara e me ne innamorai, ma non sarei mai partito senza l’incoraggiamento di mia moglie Vanna che mi diceva ‘Va’ Robi, questa gara è la tua’. Era come se la vita mi usasse come contenitore per esprimere qualcosa. E così sono andato. Pensavo di risolvere la mia personale storia d’amore con l’Alaska in un anno e invece ci sono tornato altre volte. Nel corso degli anni capivo che il risultato era sempre meno importante, mentre prendeva più significato l’aspetto umano di questa esperienza. Le terre artiche per me erano profondità terrestri, esprimevano il mio desiderio di libertà grazie a quella natura pura ed estrema, come se io fossi suo ospite senza biglietto d’invito. Ad ogni passo avevo un pensiero, e durante quei lunghissimi percorsi ne ho fatte di rivoluzioni interiori! Son tornato che non ero più lo stesso, non ero più il contadino di prima: l’Alaska, e con lei la fatica, il rapporto ravvicinato con la morte che portava ad una continua rinascita mi avevano cambiato fortemente”. Primo europeo a percorrere la gara a piedi, nelle sei edizioni a cui partecipa tra il 2000 e il 2012, Robi vince per ben quattro volte, segnando il record assoluto su questa gara in circa venti giorni di cammino. Per prepararsi a questi appuntamenti col Grande Nord si sottopone a lunghi allenamenti svolti prima e dopo il lavoro tra prati e stalla: 250 km di corsa a settimana, partendo dai trenta km del lunedì fino a giungere ai cento km in dieci ore della domenica. I valligiani che abitano lungo i paesini di Val Trompia e Val Sabbia distribuiti ai piedi della dorsale che da Pian del Bene giunge al Dosso Alto e al Maniva lo ricordano correre a qualunque ora, spesso coi copertoni attaccati alla vita per raggiungere maggiore resistenza in vista del trasporto della slitta con i viveri da portarsi lungo la gara nell’Artico. “Ero fortunato perché avevo il corpo che mi accompagnava sempre”, dice. “Sentivo che i miei passi si seguivano instancabilmente, senza aver paura di affaticarmi troppo. Il mio fisico ha sempre risposto bene, e questa è una grande fortuna. Un anno ho avuto la tromboflebite dopo trenta ore continuative di cammino, ma io non riuscivo a ritirarmi: volevo dare tutto me stesso, mi sentivo un animale desideroso di andare avanti. Lungo la gara facevo microsonni di due ore al giorno, divisi in quaranta minuti l’uno. Per vincere il grande freddo mi infilavo in un sacco della spazzatura e poi nel sacco a pelo. Mi nutrivo di cibi precotti ricchi di grassi vegetali formulati da un bio-alimentarista di Chiavenna, cotti nel pentolino in cui facevo sciogliere la neve. Parlavo col cammino: è stato anche e soprattutto un cammino interiore. Facevo 1800 km a piedi, ma con la testa ne ho fatti molti di più. Il potere catartico di quelle distese di bianco, lo stare attenti ad ogni mossa e al congelamento quando tentavo di scaldarmi il cibo mi hanno rinnovato interiormente, purificato forse, sicuramente cambiato”. Il film “Tracce”, girato durante l’esperienza del 2004 dal regista Marco Preti, è una suggestiva testimonianza dell’impresa compiuta e del coinvolgimento umano, oltre che fisico, dell’impresa. Tra i ricordi più belli, le visioni dell’aurora boreale e della Via Lattea; tra quelli umanamente più significativi, il rapporto con i Nativi alaskiani: “Loro sono della tribù degli Athabaska, perseguitati nei secoli dall’uomo bianco. Durante la gara a tratti ho avuto la percezione della loro sofferenza e della violenza subita. In una tenda ho parlato di caccia all’alce con uno di loro: ognuno si esprimeva nella propria lingua, eppure ci capivamo. E poi l’incontro, al buio, con una persona che veniva verso di me in motoslitta: a un certo punto mi ha passato del cibo, io gli ho dato il mio cibo e ho sentito lo spessore di due esseri umani, microscopici, in mezzo all’immensità di quella natura, sotto la volta stellata: mi son sentito parte dell’universo; quello scambio è stato un gesto d’amore”.

Di questi sentimenti, di queste fatiche ed emozioni Robi ha anche scritto un libro: s’intitola “L’anima del lupo” (2012) ed è edito da Marco Serra Tarantola edizioni di Brescia. Gli incontri che da anni tiene con numerosi tipi di pubblico parlano sì di Alaska, ma anche e soprattutto del significato misterioso della vita, del rapporto con la natura, del sentirsi parte del Tutto, unici ma correlati l’uno con l’altro. Significativa è stata anche la sua esperienza a contatto con i carcerati di Opera, dove ha portato la sua umanità e la sua esperienza, forte della saggezza e dell’umiltà acquisite in un’intera vita in montagna a contatto con la natura, con gli animali, e soprattutto con le fatiche estreme compiute nell’immensità del Grande Nord.
Michela Capra

Info: roberto.ghidoni.52@gmail.com