La scelta di andare (o tornare) a vivere e lavorare in montagna da parte di giovani di città non è prerogativa solo dei nostri tempi e della crisi economica e ambientale del nuovo millennio. C’è, infatti, chi ha coraggiosamente intrapreso questo percorso negli anni in cui le opportunità di lavoro nelle città non mancavano, lo spopolamento delle terre alte e marginali e l’abbandono dell’economia agro-silvo-pastorale erano solo all’inizio e la scelta di intraprendere un’attività agricola era più di oggi caratterizzata da ottimismo e spontaneismo, in anni in cui le leggi e la burocrazia, specialmente europee, stringevano meno la morsa sulle sincere spinte idealistiche di giovani mossi dal desiderio del mitico ‘ritorno alla natura’. Roberto Ghidoni, noto tra i seguaci degli sport di montagna per aver più volte eroicamente compiuto e vinto la durissima gara dell’Iditarod in Alaska (1800 km a piedi in solitaria e autonomia in soli 22 giorni di cammino!) e sua moglie Vanna sono tra i pionieri di questo seppur ancora timido fenomeno: da Brescia, lasciati gli studi e un lavoro sicuro, nel 1979 si traferiscono nell’antico borgo di Ludizzo (800 mt.), frazione di Bovegno, in alta Val Trompia.

Racconta Roberto: «Sono nato a Brescia nel ‘52, ma per motivi di lavoro di mio padre, geometra per Edison Volta e poi per Enel, mi sono trasferito ancora piccolo a Milano. Tornati a Brescia, ho studiato da perito industriale e mi sono iscritto a Ingegneria che ho frequentato per due anni, per poi lasciare gli studi e decidere di intraprendere la ‘via di fuga’ dalla città. L’amore per la montagna e la natura erano cresciuti in me, erano una cosa che avevo sotto pelle, come un inquilino che ti ritrovi dentro e che spinge per uscire. Mio padre mi aveva portato a Ludizzo, dove mio nonno aveva casa, che avevo ancora venti giorni. Ci trascorrevo tutte le estati, aiutando nei prati durante la fienagione. Quando ero a Milano guardavo le foglie dei platani volare e le pensavo in direzione Ludizzo: mi ero reso conto del legame che era nato. I legami con la natura secondo me sono i più forti. Per me era diventato impossibile tagliare questo legame a meno di essere disposto a morire lentamente. Sentivo sempre più l’attrazione per la montagna e la vita contadina. Sentivo che era una strada importante, che dovevo passare di lì: non potevo evitarla». Per mantenersi, inizialmente Roberto lavora come operaio in una trafileria, ma insieme a Vanna condivide l’idea di allevare le mucche per fare burro e formaggi: «Non mi rendevo bene conto a cosa stavo andando incontro perché quello con gli animali è un legame molto vincolante, che richiede la tua presenza 365 giorni l’anno e un’incrollabile volontà. Alla fine abbiamo fatto questo lavoro per 31 anni! Siamo partiti allevando delle Svizzere per poi prendere delle Brown Swiss perché ero attratto dai progressi della selezione, ma poi mi sono reso conto che non erano per nulla adatte alla montagna, produttrici di troppo latte e per questo da sostenere con vari mangimi, mentre a me sarebbe piaciuto alimentarle quasi a soli erba e fieno. Le spese erano troppe ed era pure difficile lavorare il latte perché troppo ricco di concentrati. Se dovessi partire adesso punterei su una Grigio Alpina perché è adatta alla montagna. Non abbiamo mai venduto il latte perché dal punto di vista economico non ci saremmo stati dentro, ma abbiamo prodotto su due linee: burro, formaggi freschi e formaggi lavorati. Abbiamo sempre venduto bene e ci siamo fatti una bella clientela, non tanto in valle perché, come si sa, ‘nemo propheta in patria’, ma soprattutto a Brescia. Avevamo aperto una finestra verso l’esterno. I primi anni falciavo tutto a mano, dalle 3 della mattina fino a mezzogiorno, tutti i giorni. La gente del posto mi dava dei prati che loro non utilizzavano più; man mano ho avuto prati più comodi, non più falciati dai proprietari perché divenuti anziani o perché assorbiti dal lavoro in fabbrica, mi sono attrezzato con la falciatrice. D’estate falciavo l’erba fresca, alla mattina per la sera e la sera per la mattina, mentre il resto serviva per l’inverno. Anche grazie all’aiuto di mia figlia Ginevra facevamo 400 quintali di fieno. A un certo punto ho preso il voltafieno e l’imballatrice – oh, che bello! -, ma poi mi rendevo conto che la sostanza era sotto, che i metodi manuali, anche se faticosi, erano ancora i più validi». Quali erano le difficoltà di questo mestiere? «Il problema ma anche il grande fascino di questo mestiere era seguire il ritmo delle stagioni, che spesso hanno un andamento diverso da come previsto o da come vorremmo. In Comunità Montana ci dicevano di tagliare quando l’erba era a seme, in maggio, ma raramente abbiamo avuto un bel maggio: in maggio quassù piove sempre! Quindi dovevamo spostare il primo taglio in giugno e non oltre, perché a quel punto l’erba diventa legnosa. Quando tu fai un prodotto di montagna devi essere lì, usare fieno locale, non puoi portare il fieno dalla Bassa. Noi abbiamo provato, ma poi il sapore virava un po’ al parmigiano. Per mantenere quel lavoro, per quindici anni nel tempo libero dal lavoro in stalla e nei prati io e Vanna abbiamo montato rubinetti e con quei guadagni abbiamo pagato i macchinari per lavorare, perché con le sole mucche non ce li saremmo potuti permettere. È stata indubbiamente una vita di fatiche ma anche una vita di sorprese, dettate dal rapporto con la natura. Era come girare il mondo pur rimanendo sempre fermi nello stesso posto: il contadino il mondo lo gira perché ne vive la varietà attraverso le stagioni». Avete mai avuto ripensamenti e voglia di tornare alla vita di città? «No, mai, anche se il lavoro con gli animali ci ha un po’ limitati culturalmente. A me piace leggere, spaziare con la mente. La cultura alimenta l’anima e anche l’anima ha diritto a un cibo. Il lavoro fisico mi imponeva di concedermi brevi letture nel corso della giornata. Ma ora che sono a riposo dal lavoro agricolo mi sto rifacendo».
Com’è stato il rapporto con le persone del luogo? «Non puoi cambiare l’ambiente dove vivi e lavori. Noi eravamo una novità e il nuovo in montagna crea paura, il contadino deve appoggiare su delle sicurezze ma se tu ti appoggi a delle sicurezze hai attorno a te un mondo chiuso. La libertà è invece un atto di coraggio. A volte facevo fatica per via della mia sete di libertà. Io non mi sono mai sentito come un contadino autoctono, che non sceglie il tipo di vita e lavoro ma lo subisce. Per noi, invece, era una scelta precisa, vissuta da un punto di vista culturale».

Nel corso degli anni di partecipazione all’intensissima esperienza atletica ma soprattutto umana e spirituale vissuta in Alaska, Roberto decide di vendere le sue mucche per dedicarsi completamente ai serrati e faticosi allenamenti previsti per prepararsi adeguatamente a quello sforzo, con tabelle che dai trenta km giornalieri del lunedì arrivavano ai cento della domenica. Dopo una breve parentesi in Slovenia presso amici allevatori conosciuti negli States, tramontata a causa di differenze etiche e culturali dovute al tipo di lavoro in una grande stalla, Roberto torna nella sua Val Trompia e trova impiego come skiliftista presso gli impianti sciistici del Maniva, dove presta lavoro per sei anni. Nel 2012 vede la luce il suo bel libro, “L’anima del lupo”, pubblicato per Marco Serra Tarantola editore, incentrato sulle intense esperienze alaskiane Ora, dopo decenni di inteso lavoro, Roberto si gode un po’ di giusta celebrità tenendo serate in giro per l’Italia e partecipando a progetti umanamente interessanti come quello con le scuole o con i carcerati di Opera. La voglia di condividere altro spazio di vita con gli animali lo sta portando ad acquistare qualche capo di capra bionda dell’Adamello, da tenere per sé e famiglia. Alla mia domanda su cosa consiglia ai giovani che oggi progettano di allevare mucche in montagna risponde: «Consiglio loro di prendere capi di razza alpina, come la Rendena o la Grigio Alpina. Anche se meno produttive sono più resistenti e adatte a cibarsi di soli erba e fieno, fornendo prodotti caseari di qualità superiore. Una buona idea è anche quella di procurarsi prati da falciare esposti in maniera differente al sole, in modo da falciare progressivamente gli spazi sulla base della maturazione dell’erba».
Questo l’uomo contadino. Del Roberto atleta fenomenale, incoraggiato dalla fida Vanna a sfidare gli estremi del Grande Nord, parleremo nel prossimo numero.
Michela Capra