Chi ha fortemente criticato in passato il mostruoso sviluppo del turismo invernale dei grandi lunapark in quota (chi scrive è stato uno di quelli) è portato a vedere nella pandemia un buon motivo per iniziare finalmente a smantellare tutto, un’occasione unica per dare avvio a quel processo di riconversione delle grandi stazioni invernali che altrimenti chissà quando avrà luogo. Il divieto di riaprire gli impianti per il periodo natalizio deciso dai politici sembra insomma un’ottima occasione per ottenere l’effetto desiderato. Purtroppo però non sarà così. Salvo rarissime eccezioni, chi governa, sempre alla ricerca di consensi, continuerà infatti ad applicare la politica dei sussidi a pioggia per risarcire le categorie danneggiate, anziché allocare fin da adesso, senza perdere ulteriore tempo, le risorse per promuovere una seria e progressiva riconversione. I sussidi avranno quindi il solito effetto di mantenere in vita un sistema economico corposo ma senza futuro, che arriva a rappresentare in certe aree alpine a monocoltura turistica, il  30 % del PIL, se si tiene conto degli effetti diretti e indiretti, o molto di più, se si tiene conto anche degli effetti indotti. In queste aree è ben noto che gli aiuti pubblici hanno contribuito, spesso in modo determinante, insieme a ingenti capitali privati, a sviluppare questo tipo di turismo. Nelle stesse aree saranno ora determinanti gli ulteriori contributi e sussidi che verranno elargiti per farle sopravvivere al divieto di riaprire. Quindi chi vede in tale divieto un modo per far cambiare rotta al turismo invernale credo rimarrà deluso. Le categorie che verranno risarcite potranno infatti, a pandemia archiviata, riprendere come se nulla fosse a gestire e sviluppare i loro parchi giochi in quota. È molto probabile che i governanti non si siano resi conto di questo, varando i loro divieti. Sicuramente non si sono resi conto se non parzialmente della mole dei danni che provocheranno e di conseguenza della mole dei sussidi che dovranno elargire ai danneggiati. Ma a ben vedere queste valutazioni a loro poco importano, perché la pandemia sembra giustificare un utilizzo di fondi senza limiti. Fondi che, seguendo una prassi ormai collaudata, ci si guarda bene di dire da dove arriveranno e chi dovrà pagare in futuro il conto salato del disastro economico finanziario che provvedimenti del genere stanno generando. Il castello di carte della moderna finanza creativa permette oggi queste leggerezze ma si tratta di costruzioni precarie che prima o poi cadranno, come è già successo in altre ben note crisi finanziarie del recente passato. Ed allora si scoprirà che i debiti contratti per permettere di comprare monopattini o per risarcire i tanti danneggiati dalle pandemia non potranno essere rimborsati e che anche le cosiddette regalie internazionali hanno un prezzo, talvolta molto alto. Tutto questo, nei roboanti proclami degli interventi che si fanno allo scopo di tranquillizzare un po’ tutti, in un momento buio come questo, si fa ben attenzione a non dirlo. O forse, peggio ancora, lo si ignora davvero.
Per completare il quadro, si può inoltre prevedere che i sussidi per mantenere in vita questo tipo di turismo invernale avranno l’effetto di rendere il sistema ancora meno competitivo e ancora più avido di contributi nel prossimo futuro. Gli interventi a pioggia non serviranno infatti a cambiare la mentalità dei beneficiari, a convincerli di cambiare strada. Sortiranno anzi l’effetto opposto: sarà insomma come somministrare droga ad un sistema già drogato.
Che fare allora, di fronte a un panorama così sinistro? Qualcosa si potrebbe fare, se solo si usasse un po’ di più il cervello e se chi decide conoscesse almeno un po’ la storia del turismo invernale ed il particolare quella dello sci. In una situazione di crisi globale come quella attuale, di cui la causa prima rimane, è sempre opportuno sottolinearlo, il mostruoso sovraffollamento globale di questo piccolo mondo (lo spopolamento delle montagne è un problema che nulla ha a che vedere con il ben più tragico sovraffollamento planetario), l’istinto di conservazione di cui più o meno tutti siamo dotati dovrebbe portare, sulla base delle suddette conoscenze, a più onesti ed intelligenti tentativi di salvare il salvabile. Senza lasciarsi prendere dalla voglia di cogliere l’occasione per distruggere una volta per tutte un sistema sì sbagliato ma che dà lavoro a tanta gente, o da quella contraria di perpetuarlo attraverso i sussidi a pioggia. Si potrebbe innanzitutto fare dei distinguo, lasciando aprire solo gli skilift e le seggiovie ed evitando il funzionamento di funivie e cabinovie, in cui i contagi sono ovviamente molto più facili, sia nelle cabine che nelle code nelle stazioni coperte di partenza. Insieme ai megaimpianti si dovrebbero chiudere, questo senza ombra di dubbio, le discoteche ed i chiassosi après ski lungo le piste, importanti fonti dei contagi nella primavera scorsa, oltre che esempi eclatanti di intromissione della vita di città in quella di montagna. Provvedimenti del genere servirebbero anche di monito agli impiantisti, perché la finiscano una volta per tutte di progettare nuovi impianti pesanti con tutti gli accessori a seguito (ristoranti lungo le piste e après ski, parchi giochi, megaimpianti per l’innevamento artificiale, ecc…) il cui costo deve necessariamente essere recuperato facendo funzionare il tutto anche se non c’è neve, anche se imperversa una pandemia. Tutti gli operatori, non solo gli impiantisti, dovrebbero capire che un sistema del genere non è più difendibile e che per creare un valore aggiunto decoroso esistono alternative. Non solo con la pratica dell’escursionismo invernale (con o senza sci), com’è ovvio a tutti, ma anche con un ritorno a impianti più semplici, meno impegnativi finanziariamente e meno impattanti, soprattutto più flessibili ossia con pochi costi fissi e una preponderanza di quelli variabili, quindi con alti margini di sicurezza e una elevata elasticità del processo di produzione del servizio. Impianti insomma che non devono funzionare ad ogni costo, pena disastrosi fallimenti. Rivalutare a tale riguardo le lente seggiovie biposto e gli skilift, ossia i poco impattanti impianti di risalita non a caso ancora molto diffusi oltralpe e nei paesi nordici, permetterebbe anche di recuperare a nuova vita molte piccole stazioni, nonché numerosi villaggi di montagna che sono stati testimoni della storia dello sci. Ne risulterebbe uno sci più vero, fonte di emozioni più profonde, sicuramente più vicino alla montagna e alla sua gente. Uno sci poco o nulla responsabile dello sviluppo di una pandemia con cui dovremo convivere non si sa ancora per quanto.
Purtroppo tutto  questo non viene minimamente preso in considerazione dalle categorie interessate, nessuno pensa di cambiare in profondità il sistema agonizzante dello sci di massa che è sotto i nostri occhi, si cerca solo di salvarlo in toto o di distruggerlo completamente con qualche colpo di bacchetta magica, vuoi per ignoranza, vuoi per rigide impostazioni ideologiche, vuoi per non perdere preziosi consensi, vuoi per ingordigie di breve termine.
A proposito dell’ignoranza, caratteristica molto diffusa fra gli umani (il grande Carlo Cipolla ha dedicato sul tema un fondamentale saggio), come si fa oggi a dire che gli impianti, pandemia permettendo, potranno riaprire in gennaio, ignorando che la stagione dello sci di massa è già ridotta ai fatidici cento giorni (negli anni settanta erano ben 130), già insufficienti per recuperare i faraonici investimenti delle grandi moderne stazioni?  Come si può ignorare che la neve artificiale deve essere prodotta a caro prezzo quasi tutta prima dell’inizio della stagione? Come si può pensare che tutti i paesi alpini si mettano d’accordo nel chiudere gli impianti fino a non si sa quando? Mettere in quarantena al rientro chi andrà probabilmente a sciare in Svizzera o in Austria, ha il sapore di un’odiosa punizione camuffata, che inviterà più che altro al piacere della trasgressione. Meglio allora avere il coraggio di chiudere davvero i confini. O di cambiare decisamente rotta.
Concludendo io penso che la pandemia rimarrà una grande occasione persa per iniziare l’auspicata conversione delle grandi stazioni invernali con interventi intelligenti e mirati, con l’avvio di un processo lento e progressivo di sensibilizzazione verso un turismo più consapevole di effettiva sostenibilità. Senza pretendere tutto e subito. Senza sottovalutare le grandi difficoltà da superare. Senza fare affidamento sulla solita politica dei sussidi, strumento infallibile unicamente per non perdere consensi.
Giorgio Daidola, economista