La montagna rappresenta un ecosistema fragile, in cui gli esiti dei cambiamenti climatici sono particolarmente evidenti. Il delicato equilibrio tra uomo e natura, tra società umane ed eventi naturali, è sempre più a rischio; proprio dalla gestione e dalla capacità di adattamento di questo territorio dipendono scenari futuri ed economie delle comunità dell’alta e della bassa valle.
Ma i preoccupanti dati relativi al consumo di suolo passano spesso in secondo piano, anche quando si parla di interventi edilizi, forse perché spesso portatori di istanze di sostenibilità. Nelle valli alpine e prealpine, si assiste oggi ad un proliferare di edifici di nuova costruzione che impiegano le più recenti tecnologie costruttive e sono orientati alla massima efficienza energetica, garantita da apposite certificazioni. Tuttavia, sebbene gli aspetti relativi all’involucro edilizio e alle fonti rinnovabili siano certamente da considerare significativi, questi nuovi edifici spesso vengono costruiti su suolo precedentemente ad uso agricolo, e costituiscono sovente abitazioni mono o bifamiliari, a volte utilizzate come seconde case.
Tale tendenza contiene una contraddizione di fondo, sottintendendo una sorta di classifica riferita alla maggiore o minore importanza di alcuni aspetti della sostenibilità ambientale rispetto ad altri.
Considerando che i cambiamenti climatici costituiscono comunemente una realtà già percepibile anche dai non addetti ai lavori, perseguire un atteggiamento rivolto ad una reale attenzione ambientale si rivela un’azione indispensabile da parte di chiunque agisca sul territorio, soprattutto extraurbano. Come afferma Luca Mercalli, le terre alte saranno in futuro oggetto di nuove migrazioni, e molto probabilmente assisteremo a un possibile “grande ritorno” alle Alpi, dovuto alle condizioni climatiche sempre più ostili delle città legate a prolungate ondate di caldo ed eventi estremi (Mercalli, 2020).
In questo scenario, è auspicabile considerare l’ingente patrimonio costruito alpino come preziosa risorsa sulla quale agire per una nuova abitabilità della montagna. Tale patrimonio è costituito in parte da un edificato storico, in alcuni casi in stato di degrado e abbandono, in altra parte è l’esito dell’utilizzo turistico della montagna avvenuto nell’ultimo secolo. A ciò si unisce inoltre la tendenza da parte delle generazioni post-abbandono a liberarsi del recente passato rurale utilizzando linguaggi costruttivi “moderni” tipici delle aree urbane e traslando, di fatto, la città in montagna (De Rossi, 2016) e privilegiando la costruzione di nuovi edifici in aree libere rispetto al recupero di quanto già presente sul territorio
Che si tratti di edifici storici o di grandi complessi abitativi destinati alla fruizione delle aree dall’interesse turistico più marcato, includere il patrimonio esistente in una nuova visione della montagna è un’azione che può significare molto dal punto di vista della preservazione del suolo alpino, risorsa particolarmente fragile ed importante se si considera anche la sua natura geomorfologica. Costruire in montagna significa confrontarsi con uno spazio tridimensionale, la cui dimensione verticale implica questioni legate al controllo delle acque in caso di eventi meteorologici particolarmente significativi, come gli eventi alluvionali dovuti all’intensità delle piogge che hanno interessato l’area Dolomitica con la tempesta Vaia del 2018 e il più recente dissesto idrogeologico nell’area delle Alpi Marittime e Liguri. Considerando la frequenza di tali avvenimenti, acquista ancora maggiore importanza la preservazione del suolo naturale, dedicandosi alla sua tutela attraverso la periodica manutenzione e limitando gli interventi edilizi al recupero del patrimonio esistente.
I grandi complessi turistici che dalla metà del Novecento hanno caratterizzato alcune aree sciistiche particolarmente attrattive dal punto di vista turistico sono un esempio di estrema urbanizzazione del suolo alpino: si pensi ad Avoriaz in Francia, o al caso di Sestriere in Val di Susa. Tuttavia, sebbene oggi risulti difficile associare queste immagini a scenari legati alla sostenibilità, dal punto di vista del consumo di suolo esse costituiscono una soluzione piuttosto ottimale, poiché concentrano l’abitato in spazi ristretti ed evitano il fenomeno della dispersione edilizia. Intervenire su questi complessi potrebbe rappresentare una stimolante strategia per creare una nuova abitabilità delle Alpi senza consumare terreni vergini.
Un interessante esempio recente di recupero di una grande area turistica alpina è costituito dal caso di Crans-Montana, in Svizzera, nel Canton Vallese. Risultato di un vero e proprio processo di invenzione urbana della montagna, il complesso di Crans-Montana trasforma a partire dagli anni Cinquanta l’area rurale dell’Haut Plateau in un luogo al servizio della florida economia turistica dello sci.
Ad inizio anni 2000, Crans-Montana viene selezionata dall’Ufficio federale della sanità pubblica per l’applicazione di un piano d’azione ambiente e salute (Paes) relativo ad aspetti di mobilità e benessere. Il progetto che ne risulta è particolarmente significativo per la valorizzazione degli spazi collettivi, introducendo una qualità che nella storia della stazione risultava inesistente, in quanto essa nasceva per orientarsi prettamente all’accoglienza e all’organizzazione di una popolazione stagionale piuttosto indifferente agli aspetti comunitari. Inoltre, l’intervento rinnova il legame con la storia precedente alla costruzione della stazione, quando l’Haut Plateau era inizialmente libero da ogni costruzione (Giromini, 2020).
La tendenza opposta è rappresentata dalle costruzioni in alta quota, per loro natura edifici sparsi e puntuali. Spesso interessante occasione di sperimentazione progettuale in campo tecnologico e formale, gli interventi su rifugi e bivacchi sono orientati ad adeguare quanto già presente sul territorio ad un utilizzo contemporaneo. Ciò è inoltre testimoniato dalle indicazioni del Club Alpino Italiano, che invita ad intervenire sull’esistente con interventi di recupero o sostituzione. In particolare, i bivacchi sono progettati per la maggior parte come costruzioni rimovibili, e le loro fondazioni puntuali consentono un’impronta a terra piuttosto esigua.
Si auspica dunque che il tema della riduzione del consumo di suolo possa essere percepito come un’interessante occasione di sfida progettuale, declinata nelle diverse situazioni e orientata all’accoglienza delle nuove modalità di abitare la montagna.
Eleonora Gabbarini e Maicol Negrello