Abbiamo deciso di prendere in gestione un rifugio per tenerlo aperto tutto l’anno. A partire dai primi anni del 2000, infatti, è scoppiato il boom delle racchette e dello scialpinismo fast & light, quello che, per intenderci, utilizza materiali leggeri e non aspetta marzo per calzare sci, scarponi e pelli di foca come accadeva nell’impostazione classica delle scuole Cai. Già da dicembre le località meno imbrigliate dagli impianti di risalita cominciavano a brulicare di nuovi turisti della neve. Oggi il turismo invernale che non frequenta le capitali alpine dello ski business è cambiato e, purché le condizioni siano sicure e la meteo accettabile, non c’è bisogno di aspettare marzo e aprile (che pure godono di giornate più lunghe e miti) per vedere gruppi di camminatori con le ciaspole ai piedi e di scialpinisti salire ai rifugi e alle cime o compiere traversate, spesso persino di notte, se c’è la luna piena. Insomma è nato un nuovo turismo che cresce costantemente, con tutti i limiti innegabili in termini di sicurezza. Questo non accade ovunque, ma dove operatori e amministratori hanno cominciato a guardare lontano e a crederci. All’Alpe Devero, per esempio, ma anche in altre località alpine poco intaccate da modelli di sviluppo e turismo ormai superati e perdenti a lungo termine. Modelli che, là dove sono stati portati soprattutto negli anni del boom economico, hanno finito per trasformare molte valli e paesi delle Alpi in non-luoghi, snaturati e svuotati per molti mesi all’anno, sacrificati sull’altare di una remunerazione immediata e di un successivo triste abbandono.
È stato questo il ragionamento che, insieme a una grandissima passione per la montagna e per l’alpinismo, per il cammino nella natura, per l’arrampicata e lo scialpinismo, ha spinto me e Cecilia, mia compagna e guida alpina, a cercare un rifugio da quelle parti da tenere aperto tutto l’anno, là dove quella stessa struttura e la maggior parte delle altre sue gemelle non avevano mai osato affrontare la stagione della neve. Cecilia in particolare, io in modo più saltuario e da “tuttofare alla pari”, avevamo alle spalle svariate esperienze di gestione e aiuto-gestione in realtà importanti come la capanna Gnifetti o la Monterosa Hütte, tanto per citarne un paio, ciò che ci permette tuttora di non affrontare questo lavoro con tante belle teorie e poca pratica.
«Da queste parti nessuno ha mai aperto a febbraio in quota», ci siamo sentiti dire il primo anno. La località in questione è una delle più particolari dell’arco alpino italiano, incuneata alla fine di una lunga valle che, da Domodossola, sale verso la punta settentrionale estrema del Piemonte, oltre l’Antigorio, in Provincia di Verbania. Si tratta di una piccola valle walser con meno di 500 abitanti, costituita da 11 villaggi (da Fondovalle a Riale) che, unendosi, hanno dato origine a un comune che dà il nome alla stessa vallata, Formazza appunto, dove per merito dei montanari non esiste nemmeno un palazzo. Il rifugio è il Miryam, di proprietà delle Acli, situato in una laterale della Formazza, la Val Vannino, sulla destra idrografica del Toce, nei pressi di un’alpe che è la sintesi perfetta di un luogo selvaggio e mediamente accessibile.
Sotto di noi un piccolo comprensorio sciistico, Formazza Ski, che dai 1280 metri di Valdo di Formazza si spinge fino ai 1770 metri dell’Alpe Sagersboden servendo, con una seggiovia, una sola pista ripida, bella e tecnica. Dalla sommità dell’impianto, in un’ora di camminata tranquilla si accede all’imbocco della Val Vannino e al rifugio, a 2050 metri. In alternativa l’accesso è dalla frazione di Canza (1400 m) in due ore a piedi. Idem in estate. La seggiovia infatti, caso raro, funziona sostanzialmente tutto l’anno, e comunque nei mesi di apertura dei rifugi; il nostro e quello più a monte, il Margaroli, che però osserva un periodo di apertura più ridotto. Caso raro, ripeto e sottolineo, di impianto che funziona con un sistema integrato che unisce sciatori tradizionali da discesa, scialpinisti, ciaspolatori, escursionisti, alpinisti, scalatori, categorie queste ultime che, non necessariamente salgono sfruttando l’impianto, ma spesso lo fanno per tenersi la maggior parte delle energie per la quota. «Noi lavoriamo per più mesi all’anno e facciamo più passaggi con l’alpinismo e l’escursionismo che con lo sci da discesa», ammette il gestore.
Fra le cose su cui abbiamo puntato, come detto, le racchette e lo scialpinismo. Se per le ciaspole abbiamo cercato di far sapere che anche noi eravamo aperti in inverno e che, d’ora in poi, era possibile un itinerario alternativo all’altro formazzino del rifugio Maria Luisa e che le escursioni con la luna piena avrebbero potuto trovare nuovi scenari con l’Arbola sullo sfondo, per lo scialpinismo abbiamo puntato molto sulla promozione di un itinerario praticamente nuovo: la Nord del Clogstafel (2970 m). Una cima che, finalmente, potrà aggiungersi alle classiche traversate da Devero e dal Passo del Griess e alla salita alla “Regina della Formazza”, la Punta d’Arbola (3200 m).
La Nord del “Clog” è sempre nella polvere e si snoda sostanzialmente di fronte al nostro rifugio, permettendo di sciare per quasi 1000 metri con pendenza costante. Ma la cosa più sorprendente è che l’unica guida cartacea delle scialpinistiche classiche ossolane non ne fa menzione, mentre il web pullula di relazioni entusiastiche al riguardo.
Così noi siamo ancora qui, con una clientela che cresce e si affeziona, a fare un lavoro che non fa sconti in termini di sacrifici, che non regala niente ai sogni bucolici perché l’acqua gela troppo in fretta e, nonostante la teleferica dell’Enel (con cui abbiamo finalmente stretto una convenzione per un “tiro” al mese proprio alla fine del 2013), le cose te le porti a spalla con la caola, come la chiamiamo qui, su e giù. Accoglienza e ristorazione sono una piccola parte del lavoro in un rifugio come questo dove, nonostante la quota sia la stessa di Breuil Cervinia, è come essere a 3000 metri per clima e isolamento. Eppure la soddisfazione intesa come riscontro concreto ti spinge ad andare avanti: quanto basta per caricarsi un’altra caola sulle spalle e guardare ancora l’alba che sorge sull’Arbola.
Lorenzo Scandroglio
Ciao Cecilia e Lorenzo,
ieri di ritorno dall’Arbola non ci siamo fermati al Myriam. Daniela ed io, complice la stanchezza, abbiamo tirato dritto.
Non abbiamo così potuto ringraziarvi dell’accoglienza superlativa al rifugio nella serata precedente.
Non si tratta solo dell’ottima cucina e della sistemazione molto confortevole ma dell’aspetto umano che fa la differenza. Abbiamo trovato degli amici piuttosto che dei “fornitori di un servizio”. Ammiro il vostro coraggio per la scelta di vivere tutto l’anno in un luogo bello ma scomodo.
Mi compiaccio di vedere che tutto ciò che oggigiorno si è sviluppato in termini di prestazioni, materiali e mentalità nel mondo della montagna non ha perso, nella vostra esperienza, il valore importante delle relazioni umane. In bocca al lupo e spero di rivedervi presto!
Roberto e Daniela