Sono a Berceto, borgo medievale nell’Appennino parmense, tappa millenaria sulla via Francigena, a poche curve di distanza dal mitico passo della Cisa. Sono qui per partecipare alla seconda edizione del Piccolo Festival di Antropologia di Montagna, organizzato da un gruppo di giovani del paese, riuniti nell’associazione Superfamiglia, per parlare di tradizioni e di innovazione culturale nella più estesa e meno nota montagna italiana.
Una delle organizzatrici dell’evento, antropologa di formazione, è Maria Molinari: originaria di Berceto, si considera oggi una “nuova montanara” (dopo il periodo degli studi e le esperienze in città): oltre a promuovere iniziative culturali nelle terre alte, è la coordinatrice del locale progetto Sprar per l’accoglienza di rifugiati e richiedenti protezione internazionale. Con Maria mi trovo a dialogare ai margini del festival, in una serata autunnale di nebbie e di lupi che girovagano nei boschi, ormai giunti poco sopra l’antico duomo.
Maria, oltre che occuparti di accoglienza dei migranti, tu sei anche guida escursionistica: come descriveresti il territorio montano di Berceto a chi non lo conosce?
È una montagna dolce e spettacolare. Dolce perché i suoi dislivelli non sono importanti come quelli delle Alpi, ma allo stesso tempo spettacolare perché i suoi crinali sono poco conosciuti, sono poco frequentati, ma sono estesi e lasciano lo sguardo spaziare fino al mare. Qualcuno parlava della nostra montagna come di “un mare di immobili onde”. Credo sia la descrizione più azzeccata. La nostra è una montagna di collegamento tra mondi differenti. Ci troviamo sull’Appennino tosco emiliano e, per questo, crocevia di passaggi da sempre. Molti dei nostri borghi, tra cui Berceto, devono la loro nascita proprio ai collegamenti tra la pianura padana e il mare. É una montagna silenziosa, che sta avendo attenzione solo in questi ultimi anni poiché per decenni le generazioni precedenti se ne sono allontanate, vedendola arretrata e senza futuro. Non è la nostra stessa visione. Noi vediamo la bellezza che cresce su questi crinali spettacolari, tra il cielo e i boschi, e vediamo che sta diventando interesse di molti… soprattutto quelli che desidererebbero abitarla. Abbiamo ovviamente altri mezzi per collegarci a quello che un tempo era considerato il buon vivere, la città, ma allo stesso tempo abbiamo la possibilità di sceglierla solo quando ci va. Abbiamo internet e molti mestieri si fanno oggi da casa. Siamo collegati, quando lo desideriamo. Dunque possiamo scegliere, a differenza di mezzo secolo fa.
Ci puoi raccontare come e quando è nato il progetto di accoglienza Sprar a Berceto?
Il progetto nasce dalla lungimiranza del Comune di Berceto, che si è reso conto che il fenomeno dell’arrivo dei migranti forzati non era un fenomeno temporaneo destinato a finire con la guerra di Libia. Grazie alla collaborazione con il Comune, il Consorzio Fantasia si è proposto di continuare a gestire il fenomeno nel territorio bercetese e zone limitrofe. Abbiamo iniziato l’approccio con i richiedenti asilo e rifugiati nel 2011 assieme al Comune, con l’emergenza nord Africa.
Dal 2014 abbiamo messo a disposizione 15 posti sul Comune di Berceto e altri 6 in collaborazione con il Comune di Medesano. Come Consorzio di cooperative operanti sul territorio montano ovest della provincia di Parma, abbiamo aiutato altri comuni ad affacciarsi al mondo Sprar e dal 2016 siamo ente gestore dello Sprar dell’Unione dei Comuni Valli Taro e Ceno e, nei comuni di Borgotaro e Bore, abbiamo altri 6 posti per uomini singoli nel primo caso e 15 per famiglie nel secondo. Le famiglie accolte a Bore, con i loro 9 bambini, hanno arricchito il paese e lì si è tornato a giocare in strada. Non è solo il numero che conta, ma vedere i bambini, figli dei rifugiati, scambiarsi modi di giocare con i boresi, è la cosa più bella da vedere.
I beneficiari accolti vivono in appartamenti in piccoli gruppi di 4, massimo 6. Nella maggior parte dei casi, il progetto paga l’affitto a privati. In un solo caso la struttura è comunale.
Nella nostra equipe, composta da personale locale, oltre ad un’antropologa che ha funzioni di coordinamento, abbiamo due psicologi, un avvocato, tre educatori. Il confronto con gli enti locali è costante. Sul territorio ci aiutano a tenere coinvolti i beneficiari le pro loco, le parrocchie, le scuole, l’Assistenza Pubblica e la Croce Rossa (dove molti dei nostri beneficiari sono stati assorbiti come volontari). A Berceto c’è l’associazione Superfamiglia, che organizza festival e rassegne; a Borgotaro l’associazione Intersos Valtaro, l’Emporio Solidale, l’Oasi Wwf… Insomma cerchiamo di mantenere i collegamenti con l’anima viva dei paesi, creando ponti e mediando, quando necessario. Il più delle volte quando c’è interesse reciproco nascono mix potenzialmente straordinari per la nostra montagna.
Oggi nel comune di Berceto che tipo di stranieri ospitate?
Al momento assistiamo ad un consistente flusso di somali. Portano storie importanti e con grosse cicatrici. Il più delle volte pensano e sperano nelle loro famiglie lontane. Spesso le famiglie stesse si trovano in campi profughi nei paesi confinanti a quello di provenienza. Non dimentichiamo che i maggiori paesi ospitanti sono gli stessi paesi africani, come il Kenya e l’Uganda. Attraversano l’inferno libico raccontando il viaggio che in molti casi è sempre lo stesso: le stesse trafile, lo stesso percorso, gli stessi maltrattamenti, abusi e richieste di denaro. Tanto chiaro da essere alla luce del sole, ma sembra non interessare troppo alla politica internazionale.
Altre provenienze principali in questo ultimo anno sono stati paesi come l’Afganistan, il Pakistan, il Mali. Dal 2014 fino ad oggi solo a Berceto abbiamo accolto un centinaio di persone. Noi continuiamo dal 2014 ad avere gli stessi 15 posti fissi nelle 4 strutture sul comune di Berceto che vengono supervisionate settimanalmente dagli operatori e curate dagli stessi beneficiari che si occupano della casa, della loro cura, dei pasti, delle manutenzioni e della loro quotidianità condivisa. Di questi, alcuni hanno trovato lavoro, in alcuni casi ricongiungendosi con la famiglia che li ha raggiunti.
In che attività sono coinvolti i vostri ospiti?
Considerando che il tempo di permanenza è relativamente breve – un titolare di protezione internazionale può permanere massimo 6 mesi all’interno della struttura di accoglienza, prorogabile di altri pochi mesi – le giornate debbono necessariamente essere riempite il più possibile di attività di formazione linguistico – professionale. Portano molto spesso competenze professionali disparate che non sempre possono essere immediatamente spese nel nostro paese, poiché non riconosciute o perché non corrispondenti al nostro quadro normativo. Per questo nei colloqui di entrata si redige un progetto individualizzato per costruire, insieme al beneficiario, un programma di permanenza all’interno del progetto che possa essere efficace al 100 % in quel breve tempo, per trovare un lavoro e una sistemazione in Italia o all’estero e che quindi possa permettere alla persona di riconquistare la propria autonomia. Parlo di riconquista poiché sono tutte persone adulte, che hanno avuto un lavoro e una vita normale a casa loro fino al momento della fuga a causa di una guerra, di un disordine, o di un fatto, concatenato ad un altro. Quindi l’obiettivo di tutto il gruppo di accoglienza, operatori, beneficiari, sindaci, mondo del volontariato, è quello di aiutare la persona a ritornare ad essere autonomo, nel nostro mondo fatto spesso di burocrazia e nella quale è difficile inserirsi.
In particolare negli ambienti montani, abbandonati per decenni, in cui scarseggia la popolazione giovanile e le occasioni di lavoro… il lavoro, per il nostro territorio e per i nostri beneficiari, stiamo tentando di crearlo. Ci rendiamo conto che stiamo vivendo un periodo di cambiamento: nuovi montanari che si muovono dalla città nauseati dalla loro congestione geografica e mentale, dai ritmi frenetici insensati, che desiderano una vita salubre, bella e tranquilla. Immigrati che lavorano nell’agricoltura e nell’allevamento (siamo anche noi nella zona del Parmigiano Reggiano) e con i nostri anziani. Ma anche rifugiati che ci possono venire in aiuto nella cura del nostro territorio in rovina. Parlo dei boschi abbandonati, dei muri a secco e di contenimento che crollano, delle aziende agricole in cerca di sviluppo e manodopera. Su questo stiamo avviando dei percorsi di formazione, poiché la proposta formativa a mercato in città è del tutto insufficiente, inadeguata e soprattutto non combacia con i tempi di viaggio degli spostamenti tra città e paese.
Faccio cenno solo alle ultime attività avviate: durante un corso di formazione per operatore forestale, che ha coinvolto 6 dei nostri beneficiari, abbiamo pulito una strada storica che collegava la frazione di Valbona al Passo della Cisa. Questa strada storica era quella che usavano i nostri contadini per portare al pascolo le vacche nel periodo estivo. Per noi locali sono cose importanti. Buona parte dei sentieri, che una volta erano mulattiere, sono del tutto impercorribili per via della vegetazione e degli smottamenti. Sistemando questi sentieri, vengono valorizzati anche dalle guide escursionistiche per un rilancio turistico che sta avvenendo, lo vediamo come guide e come paesani: a differenza del turismo sulle Alpi fatto di neve, cime e sport e finora anche di aiuti economici, il turismo appenninico si caratterizza per essere maggiormente un fatto di storie, di narrazioni, di luoghi legati ad avvenimenti e personaggi, di cammino lento e di contenuto.
Questo è quello che il mestiere di guida tenta di raccontare entusiasmando le persone che accompagna. Spesso poi tra loro si nascondono persone che vengono per conoscere, e poi innamorarsi e poi, forse un giorno, fermarsi e costruire in montagna come stanno facendo oggi alcuni.
Che rapporti ci sono tra i richiedenti protezione internazionale e la popolazione locale?
I dubbi, i timori, le paure, le frustrazioni… sono sentimenti normali e in quanto tali vanno ascoltati. Quelli di chiunque. È chiaro che non è facile.
Da questo punto di vista non ho mai visto compaesani aprocciarsi in modo negativo con i beneficiari del progetto: sono una presenza. Una presenza forse scomoda, forse buona, forse fastidiosa, forse curiosa. Sicuramente sono un fatto, e in quanto tale si è accettato.
Il più delle volte ho visto persone rimboccarsi le maniche e aiutarci a “fare integrazione”, senza fare troppa confusione, per fare in modo che queste vite non siano un problema, soprattutto per loro stesse, ma tali da essere vissute il più serenamente possibile.
Tu sei antropologa di formazione: come si caratterizza, secondo te, il modello Sprar di accoglienza dei migranti nel vostro Appennino?
Non so se posso dire che il modello Sprar funzioni nelle terre alte. Senz’altro quello che possiamo osservare noi in paese è questo: i beneficiari arrivano con la corriera alla sera da Parma, insieme agli studenti, oppure dalla bassa valle, e quando scendono e attraversano la piazza per rientrare a casa, le persone li salutano, spesso chiamandole per nome, come si fa con qualunque faccia conosciuta in paese. Si saluta. Non so se questo succede in città, forse perché sarebbero troppe le persone da salutare passando le piazze ovviamente. Il saluto ti accoglie.
Non vediamo nei paesani timore nei loro confronti, così come non vediamo rabbia. Il progetto ha fatto in modo che questo rapporto esistesse, soprattutto per le persone con minori possibilità. Non è il caso di creare guerre tra chi ha meno. Coinvolgendo le persone nell’organizzazione di feste di paese, di eventi, di manutenzioni per il paese, si possono inavvertitamente costruire bei legami.
Forse qui in Appennino c’è un pò più la consapevolezza che il poco va diviso, da secoli.
Un altro aspetto: gli assembramenti fanno paura, lo sanno bene le forze dell’ordine. Ecco. Qui da noi è impossibile fare assembramenti… anche sperandolo! A parte gli scherzi… Non c’è paura.
Trovo che qui ci sia un forte senso di concretezza. Credo che sia proprio qui la svolta. Qui non si parla molto di accoglienza e di ragionare in un certo modo piuttosto che nell’altro. Qui si fa. E siccome c’è la consapevolezza che è questo ciò che il nostro periodo storico ci sta portando, cerchiamo di fare, insieme possibilmente. Non cerchiamo di convincere le persone che i “profughi” non sono un problema: li coinvolgiamo nel lavoro per la comunità perché abbiamo già accettato che ne fanno parte. Forse il punto è proprio che non ci fermiamo a discuterne tanto. Le parole dipingono le persone. I fatti le rispecchiano.
In questi giorni si è tenuto qui a Berceto il Piccolo Festival di Antropologia di Montagna in cui si è discusso, tra l’altro, di neo-popolamento delle terre alte e di nuovi montanari: che ruolo possono avere gli stranieri in queste dinamiche? Che spazio c’è per loro, se c’è, in questo territorio?
Si, c’è spazio. Ne sono convinta. È che le persone, i sistemi soprattutto, le geografie… ancora non lo sanno. C’è spazio ovunque quando si soffre delle scuole che chiudono per mancanza di bambini; dove i servizi chiudono per mancanza di utenze; dove i trasporti sono carenti perché tutti si muovono in macchina; dove i terreni hanno i proprietari in città o all’estero e quindi si riempiono di rovi e si chiudono i canali e i sentieri; dove le case crollano oppure restano vuote durante l’inverno e molte anche in estate. Se parliamo di territorio, a noi è venuta voglia di prendercene cura. È benvenuto chi ne ha voglia insieme a noi.
È proprio qui che mi colloco ancora: una montagna che non separa, ma collega. Come il nostro Passo della Cisa, come il crinale Val Parma – alta Lunigiana. Le persone li hanno sempre percorsi da una parte all’altra perché avevano bisogno di collegare aree, portando merci, culture, idee. Non credo che siamo molto distanti da quelle epoche. I passi di valico sono così. E noi ci siamo nati sopra. Direi piuttosto… ci siamo nati “attraverso”. Il passaggio non ci ha mai infastidito. E se qualcuno decide di rimanere facendo, tanto meglio per tutti.
Andrea Membretti