Roberto Dini, Luca Gibello, Stefano Girodo, “Rifugiarsi tra le vette. Capanne e bivacchi della Valle d’Aosta dai pionieri dell’alpinismo a oggi”, Segnidartos editore 2016, pp. 120, 15 euro.

Il libro racconta, attraverso l’analisi dei punti di appoggio per la conquista delle vette valdostane, il rapporto tra l’uomo e la montagna.
Si tratta di un rapporto ancestrale, ma gli autori scelgono di partire dalla metà del ’700, periodo in cui, per ragioni scientifiche, naturalisti, fisici, glaciologi, geografi e astronomi attrezzano basi semistabili di osservazione per poter restare in quota diversi giorni ed effettuare osservazioni e rilevamenti.
La storia si sviluppa poi lungo tre archi temporali. Dal 1900 al 1945, quando, con l’aumentare dei fruitori delle montagne, i rifugi si ingrandiscono e crescono i comfort offerti, ispirandosi agli alberghetti di montagna. Inoltre nel 1925 entra in scena la nuova tipologia edilizia del bivacco, capolavoro di tecnologia prefabbricata.
Dal 1945 al 1991, gli anni del boom economico, arriva il turismo di massa anche in montagna, si aprono nuovi cantieri, si ampliano i rifugi (fino a 100 posti letto) e se ne costruiscono di nuovi. L’arrivo dell’elicottero facilita le operazioni di trasporto e tutto diventa più accessibile.
Infine dal 1991 ad oggi, per ridurre l’impatto ambientale, le parole d’ordine divengono “recupero, trasformazione, riqualificazione, ottimizzazione e riduzione dei consumi, efficienza e autosufficienza energetica, certificazione dei materiali, sicurezza, gestione e smaltimento dei rifiuti”. Si utilizzano nuovi materiali, si migliorano le capacità energetiche delle strutture esistenti, si cambiano le forme agli edifici già esistenti, si sostituisce il nuovo al vecchio, ma non si costruisce più. La montagna deve essere lasciata il più possibile intonsa.
Questa escursione storica nel libro viene raccontata attraverso quattro interessanti chiavi di lettura. La prima è il comfort che inevitabilmente cresce (in termini di abitabilità degli spazi interni, possibilità di scelta nella ristorazione, maggiore privacy, livello dei servizi) perché cambiano i fruitori, senza però perdere la valenza sociale che ha lo spazio condiviso, rappresentazione della condivisione di fatiche e di soddisfazioni che la montagna prende e dà.
La seconda è la tecnologia, protagonista quasi assoluta, nella costruzione di un ricovero in alta quota, in quanto risponde alle esigenze di “sopportare condizioni ambientali estreme, calibrare la distribuzione ottimizzando l’uso dello spazio, massimizzare l’efficienza prestazionale dell’involucro, e più in generale, del “funzionamento” dell’edificio, riducendo i costi e i consumi.
La terza chiave di lettura passa attraverso il paesaggio, inizialmente chiuso fuori dalla porta, per proteggere e isolare dal freddo le persone, poi elemento fondamentale nel dialogo tra l’ospitante, la montagna e l’ospite, l’alpinista e l’escursionista. Il contesto diviene elemento del progetto.
Infine le persone, i gestori, i custodi dei rifugi, che accolgono e forniscono preziose informazioni sulle condizioni della montagna, comunicando però anche, e soprattutto, il valore educativo delle terre alte.
Il libro di Roberto Dini, Luca Gibello e Stefano Girodo si presenta come un bel racconto, che si fa leggere con piacere, ma più ancora si sfoglia con gusto, fotografia dopo fotografia.
Silvia Guerra