di Dino Matteodo

In tutto quel gran parlare che si fa sulla montagna, con la soppressione delle comunità montane, sembra scomparso il tema del governo della montagna, tema che, accanto a quello delle risorse, è centrale, se si vuole seriamente affrontare la questione della vita o della morte di queste nostre valli. Mi pare che oggi i propinatori di ricette sul futuro delle nostre terre, per non parlare di gran parte della classe amministrativa dei nostri comuni, ben poco sappiano di come si sia arrivati a questa situazione di sbandamento generale e di totale mancanza di una politica sulla montagna. Perché di questo stiamo parlando. Prova ne sia che ormai lo stesso termine di montagna pare desueto e sempre meno utilizzato, a profitto di altri, quali “terre alte”, “aree interne”, “terre oltre” che, oserei dire, fanno fine, ma non impegnano.

La carta di Chivasso

La stessa UNCEM, che per altro è estremamente attiva a livello organizzativo e comunicativo sui singoli problemi e settori della vita in montagna, pare restia a mettere al centro il tema del governo; prova ne sia che lo scorso anno nel celebrare gli 80 anni della Carta di Chivasso, il tema proposto fu quello ben più soft della lettura della Carta nella prospettiva dell’Europa unita. Eppure i partigiani valdostani e valdesi che redassero quel documento, certamente avevano una prospettiva europeistica, ma ponevano al centro le questioni dell’organizzazione territoriale, del governo del sistema cantonale che la Carta proponeva, delle risorse economiche e della salvaguardia della lingua e della cultura.

Quel documento, per altro frutto di élite provenienti da territori dal forte senso identitario e di spirito autonomistico, non mancò di ispirare nell’immediato dopoguerra una prima generazione di amministratori locali che, anche in Piemonte, vedi la Val Sesia, piuttosto che in alcune valli della provincia di Cuneo, avviarono un forte dibattito che portò quasi subito alla nascita dei consigli di valle, quale prima forma di superamento della logica comunale. In qualche modo il tema fu recepito con l’art. 44 della Costituzione, là dove all’ultimo comma si dice: “La legge dispone provvedimenti per le zone montane”. In quella logica vanno viste: la nascita, nei primi anni cinquanta, dell’UNCEM, quale sindacato degli enti montani; sempre in quegli anni i riconoscimenti dei sovraccanoni idroelettrici e la formazione dei bacini imbriferi montani; per giungere al 1971 alla creazione delle comunità montane e nel 1994 alla legge “Carlotto” istitutiva del fondo nazionale della montagna ed in Piemonte, sempre in quel periodo, alla legge che dispose un fondo regionale per la montagna alimentato dal 20% delle accise sul metano. La montagna, quella non compresa nelle autonomie speciali, non era diventata il paese di bengodi, ma certo disponeva di un sistema di governo e di risorse certe che le consentirono di istituire quelle strutture amministrative indispensabili per gestire progetti di sviluppo ed utilizzare al meglio, là dove era possibile, le risorse dei fondi europei. 

Quel sistema, che chiedeva solo di essere implementato e, in alcuni suoi aspetti, migliorato, vedasi le composizioni pletoriche dei consigli delle comunità montane, che si potevano ridurre con un sistema di voto limitato tra gli amministratori dei comuni di ogni singola comunità montana (come si fece con la Legge Bresso in Piemonte), a partire dal 2008 cadde come un castello di carte e fu spazzato via da una serie di provvedimenti legislativi provenienti dallo Stato e dalle regioni, che in gran parte dell’Italia, e nel nostro Piemonte in particolare, portarono alla soppressione delle comunità montane, alla liquidazione di fatto del fondo nazionale e di quello regionale per la montagna. Complici di quella politica furono le forze politiche di destra, come quelle di centro sinistra, nessuna esclusa. La crisi finanziaria del 2008 fu il contesto in cui i primi provvedimenti furono presi ed il pretesto fu la pubblicazione nel 2007 del famoso libro “La Casta” di Stella e Rizzo. Per mesi nei programmi serali delle reti televisive si assistette alla criminalizzazione delle comunità montane, quali causa dei dissesti finanziari dell’Italia! Le comunità montane, che sino ad allora erano sconosciute ai più, diventarono l’emblema dello spreco; roba da non credere, se solo si pensa che l’anno in cui il fondo nazionale della montagna ricevette più soldi fu il 1996, Governo Dini: 300 miliardi di vecchie lire, la stessa cifra che nella stessa finanziaria fu messa per pagare i debiti del CONI. Per dirla tutta, l’intera montagna italiana valeva come i debiti del Coni. Negli anni successivi quella cifra non fu mai più raggiunta, per giungere in anni a noi più vicini a somme ridicole, distribuite ai singoli comuni montani, in base alla loro popolazione!

Se il Pié abbandona il monte

La legge finanziaria del 2008, Governo Prodi, rappresentò il primo attacco al sistema di governo delle comunità montane. In Piemonte la Giunta Bresso, rispose all’aumento del numero delle comunità montane che, via via, si era verificato negli anni precedenti, imponendo la riduzione a 22 enti, con fusioni che ovunque si rivelarono nefaste e che per cinque anni bloccarono di fatto l’attività degli enti. Tutto ciò quando bastava ritornare alle 31 comunità istituite in origine, nei primi anni settanta. Fusioni che andarono in mille pezzi quando la Giunta Cota nel 2012 soppresse le comunità montane e, adeguandosi al nuovo Testo Unico degli enti locali, le sostituì con le unioni di comuni, lasciando ai singoli comuni la totale libertà di aggregazione. Successe di tutto. In alcuni posti il vecchio sistema di governo vallivo, che già era stato sperimentato con i consigli di valle, alla fine degli anni quaranta del Novecento, saltò per aria con comuni che non aderirono ad alcuna unione, con valli in cui nacquero più unioni, con comuni che andarono con unioni di altre valli; il tutto secondo logiche di campanile, per non dire di rapporti più o meno amichevoli tra sindaci. Ma la legge dell’allora assessore regionale Maccanti fece di più, non solo fece sparire il fondo regionale alimentato dalle accise sul metano, ma pagò per dieci anni gli enti che si prendevano il personale delle comunità montane, i quali così furono implicitamente invitati ad andarsene; di più, il finanziamento regionale delle unioni montane piemontesi fu erogato con il parametro dei dipendenti rimasti. In buona sostanza i fondi regionali della montagna andarono a finanziare anche comuni non montani e città che si presero delle professionalità che sparirono dalle valli. Difficile fare meglio per distruggere la montagna. In molte realtà un vero e proprio bagno di sangue; saltarono in molti casi le loro strutture amministrative; le comunità, diventate unioni di comuni, non avevano nemmeno il diritto ad un segretario, ma dovevano, e devono, avvalersi di un segretario di un comune dell’unione che deve svolgere l’attività gratuitamente! Così messe le unioni nell’area montana piemontese, pur mantenendo formalmente la titolarità delle funzioni relative alla montagna, hanno cessato di fatto di svolgere il ruolo di enti di sviluppo, in quanto sia il quadro normativo nazionale che quello regionale sono ormai privi di efficacia rispetto a quelle funzioni che pian piano si sono affievolite.  

Così messe oggi le unioni di comuni montani funzionano quasi esclusivamente secondo le logiche del Testo Unico, come qualsiasi unione di comuni. Negli anni l’obbligo per i piccoli comuni di conferire all’unione tutte le nove funzioni fondamentali è rimasto in gran parte disatteso e sembra che nessuno abbia interesse a farlo rispettare. Là dove i piccoli comuni avevano messo effettivamente in comune tutte le funzioni, vedasi la Valle Po, la situazione è esplosiva, poiché sono più i comuni che non sono entrati, o sono usciti, rispetto a quelli rimasti. Altrove le funzioni conferite sono state per lo più quelle non centrali nella vita amministrativa del singolo comune.

Di più, oggi i consigli delle unioni montane, composte dai soli sindaci, hanno perso la loro funzione di ente di valle che opera secondo logiche di area vasta, ma sono prevalentemente la sede rivendicativa del singolo comune. In troppi casi il sindaco vede nell’unione il luogo dove risolvere i problemi del suo comune.

I nuovi montanari

Paradossalmente nelle Alpi si è andata accentuando la logica comunale, che invece bisognava superare, con comuni sempre più piccoli, sempre più spopolati, sempre più amministrati da un ceto politico esterno. La normativa statale, tesa a favorire la fusione tra i comuni, con finanziamenti incentivanti basati unicamente sul dato demografico, che ignora totalmente la complessità territoriale, ha favorito le aggregazioni tra comuni di medie e grandi dimensioni o l’accorpamento di piccoli comuni con città più o meno vicine. In provincia di Cuneo i casi di Castellar – Saluzzo e Valmala – Busca sono illuminanti in proposito!

D’altra parte è lo stesso sistema delle risorse pubbliche ad aver preso atto della situazione. Tutti i finanziamenti statali, a cominciare da quelli del PNRR, con l’infernale complessità burocratica che li accompagna, hanno come unico riferimento il singolo comune, o aggregazioni momentanee di comuni, ignorando la logica dell’unione montana; comuni montani ormai privi di personale dovrebbero gestire milioni di euro, per progetti che ben difficilmente avvieranno dinamiche di sviluppo. Passata questa fase ben poco resterà sul territorio.

I comuni perduti

Questa destrutturazione del sistema di governo della montagna avviene paradossalmente in un contesto che non sarebbe sfavorevole. Infatti, se per decenni si è dovuto far fronte ad una fuga di giovani che trovavano facilmente lavoro altrove; ma soprattutto ad un comune sentire che li spingeva via da un territorio, una cultura, delle professioni che venivano percepiti come negativi; oggi non è più così. Oggi la montagna attrae, pur con numeri ancora modesti; fare l’agricoltore non è più un handicap; nel disastro generale che ci circonda e con le opportunità che le nuove tecnologie ci offrono, assistiamo un po’ ovunque ad innesti di giovani famiglie, senza le quali davvero non abbiamo futuro. Ma questi processi, se non vogliamo che siano effimeri, e spesso lo sono, vanno guidati e governati. Bisogna costruire comunità, produrre cultura, investire energie sulle nuove aziende, garantire servizi innovativi. Ma questo non si può fare con la politica del singolo comune; occorre visione d’insieme, in certi settori su aree più vaste, tra più valli e con i centri della vicina pianura; in altri organizzando i servizi sulla filiera di valle. I temi dello sviluppo che oggi sono in agenda: l’energia, la qualità della vita, le produzioni di qualità, ecc. sono degli atout per la montagna che non si possono perseguire a mani nude con i singoli comuni, senza l’elaborazione di strategie di area più vasta, senza la garanzia di finanziamenti annuali ad un ente di valle, volti alla costruzione dei sistemi di governo del territorio. Per questo bisogna ritornare al più presto ad un governo vallivo com’era quello delle comunità montane ed a fondi certi nazionali e regionali, volti al funzionamento di quegli enti, alla loro capacità di cofinanziare progetti e dotati di adeguati uffici burocratici.

Ma quale metromontagna!

Fuori da questo contesto, con una montagna senza governo, un concetto di moda come quello di “metro-montagna” è fuorviante; finisce solo per applicare scelte di sviluppo in cui la montagna è vista secondo la logica della monocultura del turismo o della conservazione ambientale, in cui la presenza umana è sempre meno indispensabile. Una logica che alla fine vede la montagna come il parco giochi della città.

D’altra parte l’emorragia demografica della montagna è tutt’altro che finita. Oggi, rispetto al passato, si esplica secondo due modalità: da un lato se ne vanno molto lontano i giovani che hanno delle alte formazioni universitarie, e questa è una storia che riguarda tutto lo Stato italiano; dall’altra se ne vanno persone di tutte le età, ma soprattutto giovani famiglie, verso le cittadine limitrofe alle valli, là dove sono sempre più concentrati i posti di lavoro, ma soprattutto i servizi indispensabili.

Ridare un governo alla montagna non è tutto, ma è indispensabile. Altre questioni sono fondamentali, a cominciare dalla fiscalità per le imprese site nelle aree più desertificate. Ma questa è un’altra storia che, in un’epoca come questa di concordati fiscali, meriterebbe di essere affrontata.