Dal 31 agosto al 5 settembre scorsi, il gruppo di ricerca Emidio di Treviri ha organizzato la quinta edizione della Scuola di Fornara, un momento di formazione e approfondimento per chi lavora, fa ricerca e militanza sui temi della montagna e delle aree interne, che si è tenuta come ogni anno in una frazione di Acquasanta Terme, nel cratere del terremoto 2016-2017. Questo articolo riporta alcune riflessioni che sono emerse in particolare durante la giornata dedicata alle Retoriche e Manifesti sulle aree interne, iniziata con una masterclass di Mauro Varotto e proseguita con una tavola rotonda con Rossano Pazzagli, Giorgio Osti e Domenico Cersosimo.
La giornata ha permesso di iniziare a riflettere criticamente su quello che sembra un vero e proprio alfabeto comune delle aree interne: un linguaggio sempre più affermato e riconoscibile, recentemente formalizzato e codificato da alcuni Manifesti (Manifesto di Camaldoli delle/dei Territorialiste/i e il Manifesto per Riabitare l’Italia) che hanno definito gli orientamenti dominanti su come abitare e rigenerare i territori marginali.
L’obiettivo era muovere verso una riflessione critica sulle retoriche dominanti nel discorso, sempre più copioso, che negli ultimi anni ha investito questi territori, iniziando a individuare temi e prospettive che emergono cronicamente, producendo veri e propri stereotipi geografici (Varotto, 2020) sulle aree interne.
Cosa comporta «l’inversione dello sguardo» (De Rossi, 2018) che attraversa buona parte del discorso pubblico sulle aree interne? Si tratta di una «postura» (Pasqui, 2020) che riesce a «superare la dicotomia centro-margini» e tutte le tradizionali dicotomie che hanno storicamente opposto città e montagna? Ad esempio, durante la pandemia, a partire dall’articolo di Stefano Boeri apparso ad aprile 2020 su La Repubblica in cui l’architetto sostiene che «nei vecchi borghi c’è il nostro futuro» e parla di «adozione dei borghi» da parte dei maggiori centri urbani, abbiamo assistito a un’ondata improvvisa e mediaticamente molto rumorosa di inversioni dello sguardo. A seguito di questo contributo si è generato un ricco filone discorsivo sul tema dello smart working nei borghi, presentato sempre più spesso come ricetta per riabitare le aree interne. L’idea di un riabitare che faccia perno sullo smart working rischia però di promuovere una fruizione elitaria di questi territori, in cui le aree interne e le loro qualità (prettamente ambientali) vengono “rigenerate” per la fruizione della classe media urbana (Bindi, 2021). È paradigmatico il caso del Bando Borghi (Linea A del bando) in cui verranno individuati 21 borghi pilota per attuare progetti di rigenerazione territoriale che faranno leva su residenze sanitarie per anziani, alberghi diffusi, residenze d’artista e residenze per lavoratori in smart working.
La capacità dei borghi di attrarre persone ha come condizione di partenza l’abbandono, visto come un vuoto propizio a innestare progettualità innovative, svincolate dalle forme di vita territoriali attuali. Se questa visione continua ad essere il motore di idee, progetti e politiche per le aree interne, il rischio è che non si raggiunga il cuore delle criticità che hanno determinato il progressivo spopolamento di questi territori. Ovvero, prima di pensare al ripopolamento si dovrebbe comprendere lo spopolamento come un epocale e diversificato processo di deterritorializzazione che non può essere invertito solo attraverso l’insediamento di nuove popolazioni temporanee, slegate da attività produttive localizzate.
Dal nostro punto di vista, una riflessione situata e puntuale sul ripopolamento delle aree interne deve considerare l’abitare nella sua dimensione funzionale e radicata, senza la quale si riprodurranno le disuguaglianze socio-territoriali che ne hanno comportato la marginalizzazione (Olori, 2021).
E, ancora, cosa significa investire le aree interne di visioni di futuro legate all’innovazione? Quali rischi presenta l’adozione sistematica di una logica delle best practices nella progettazione territoriale? Che tipo di criticità si possono individuare in un’idea di sviluppo come performance da quantificare e come standard da conseguire, portando i territori a competere per conquistare fette di mercato e inseguire miti di esclusività ed eccellenza?
Di seguito proponiamo un testo più esteso dove si è cercato di individuare i punti critici di questo dibattito fortemente uniforme e omogeneo, che da alcune parole chiave ha creato veri e propri stereotipi – prettamente urbani- sulle aree interne, e abbiamo avanzato alcune riflessioni per una ricerca situata, che pensiamo come radicata nei luoghi e consapevole delle contraddizioni.
Giulia De Cunto, Veronica Macchiavelli, Enrico Mariani, Francesca Sabatini, Emidio di Treviri