Esistono delle colture che nel tempo hanno acquisito caratteristiche di resilienza e resistenza tali da assicurare una produttività adeguata alla realizzazione di una filiera agricola economicamente sostenibile anche in territori montani. Purtroppo, negli ultimi decenni, da un lato l’abbandono delle pratiche agricole e dei luoghi, dall’altro la maggiore richiesta sul mercato di colture più produttive e facili da gestire, hanno causato la scomparsa di queste varietà. Ne sono un esempio piante rustiche che tollerano maggiormente gli stress ambientali, come i cereali minori (orzo, segale, miglio, etc.), che un tempo svolgevano un ruolo importante in zone di montagna ed erano alla base dell’alimentazione dei loro abitanti. In particolare la segale si preferiva ad altri cereali in quanto in grado di resistere ai climi freddi e ventosi grazie ad una serie di adattamenti cellulari che le permettono di svernare durante lo stadio vegetativo.
 Dopo gli anni 50, la coltivazione dei cereali minori è calata o è stata abbandonata del tutto, lasciando spazio a colture più remunerative. Tale evoluzione ha comportato un cambiamento del paesaggio e un impoverimento della biodiversità vegetale e animale. Inoltre, attorno alle colture locali spesso si muovono tradizioni popolari e usanze, per cui la loro perdita comporta anche quello della cultura del luogo e di quello che l’Unesco definisce Patrimonio culturale immateriale (Ich-Intangible cultural heritage) e si prefigge di salvaguardare per evitarne la scomparsa.

Essendo fortemente legate a tre fattori, quali l’uomo, l’ambiente e la variabilità genetica, la definizione di varietà locale non è statica ma evolve nel tempo e nello spazio. Questo, soprattutto a livello legislativo, rende difficile capire quale sia il tempo minimo di presenza sul territorio di una risorsa genetica affinché essa possa essere considerata locale o “autoctona”. Nelle “Linee guida per la conservazione e caratterizzazione della biodiversità vegetale di interesse agricolo”, realizzate nell’ambito del programma di attività per l’attuazione del Piano nazionale per la biodiversità di interesse agricolo (DM 28672 del 14/12/2009), si dà la seguente definizione di varietà locale: “Una varietà locale di una coltura che si riproduce per seme o per propagazione vegetativa è una popolazione variabile, comunque ben identificabile e che usualmente ha un nome locale. Non è stata oggetto di un programma organizzato di miglioramento genetico, è caratterizzata da un adattamento specifico alle condizioni ambientali e di coltivazione di una determinata area ed è strettamente associata con gli usi, le conoscenze, le abitudini, i dialetti e le ricorrenze della popolazione umana che l’ha sviluppata e/o continua la sua coltivazione”. Per cui, trovare dei parametri spazio-temporali rischia di snaturare qualcosa di più profondo frutto di un legame socioculturale con uno specifico contesto sociale che si dedica alla coltivazione ripetuta di una determinata varietà, la utilizza e la riconosce come propria.
Il ritorno in un contesto di alta montagna alla coltivazione di varietà legate alla tradizione potrebbe essere fondamentale nello strutturare una filiera agroalimentare sostenibile che valorizzi le colture del territorio, promuova la cultura contadina e le tradizioni locali e crei nuove forme di reddito che arrestino lo spopolamento e incentivino il ripopolamento.
Infatti, il recupero di un seme, la sua riproduzione e la sua conservazione, può contribuire a diversi fattori: il rafforzamento del senso di collettività e di appartenenza all’interno di una comunità; la conservazione di tradizioni, usanze e in generale della cultura del luogo; la difesa da rischi, biotici e abiotici; la tutela dell’economia di un territorio e quindi l’autonomia dei suoi abitanti.
Dal rafforzamento del senso di comunità potrebbero nascere anche nuove modalità di gestione che aiuterebbero a recuperare le proprietà frammentate e i terreni agricoli incolti o abbandonati, come ad esempio le “Associazioni Fondiarie”, già sperimentate con risultati positivi in alcuni comuni montani (le Assfo costituite sul territorio piemontese sono ormai oltre una ventina).

Sul modello di quanto avviene in Francia già dagli anni ‘70, esse permettono ai proprietari terrieri di associarsi per recuperare e utilizzare al meglio i terreni abbandonati, creando un’unica unità sufficientemente ampia che favorisca nel tempo il recupero produttivo delle aree interessate e la conservazione dei caratteri paesaggistici del territorio. Dal punto di vista sociale, inoltre, le “Associazione Fondiarie” favoriscono il superamento dell’interesse privato a vantaggio di una visione collettiva, quindi rappresentano un’ulteriore occasione per ricostituire un senso di comunità, rinforzare il legame con il territorio e stimolare al confronto.
Il recupero delle colture locali permetterebbe il ritorno a quote montane di colture ormai scomparse ma anche la realizzazione di prodotti finali di migliore qualità competitivi sul mercato. Infatti, nonostante la minore produttività, alcune varietà tradizionali presentano proprietà organolettiche superiori alle quali i consumatori di oggi sono sempre di più interessati. L’agrobiodiversità in un territorio risulta una risorsa fondamentale per la realizzazione di prodotti identitari e di qualità che possano alimentare un’economia che coinvolga tutti gli attori locali, quindi il settore della ristorazione, dell’ospitalità turistica, ma anche quello artigianale legato all’attività di trasformazione delle risorse agricole. Inoltre, le varietà locali si sono generalmente evolute in condizioni di bassi input agronomici e la diversità genetica che le caratterizza è estremamente utile per un’adeguata risposta ad eventi ambientali estremi che si prospettano sempre più frequenti.
Un’idea per gestire collettivamente le sementi locali potrebbe essere quella di istituire una Casa delle Sementi (Cds), realtà già diffusa in tutto il mondo e ormai riconosciuta dalla Fao, dai programmi sulle Risorse genetiche e dall’Unione Europea. Le Cds sono parte integrante dei sistemi sementieri informali slegati dalla legislazione e da interessi economici che favoriscono l’accesso alle sementi e una loro gestione partecipata. Esse sono costituite da strutture dove conservare i semi e aree per coltivarli, e sono gestite dalla comunità sulla base di valori condivisi e norme collettive che regolano l’accesso ad essi ma anche al sapere e alle informazioni. Nelle Case delle sementi anche il miglioramento genetico è di tipo partecipativo, ovvero non deciso da genetisti in laboratorio ma realizzato dagli agricoltori stessi in campo. Così facendo si selezionano varietà con specifiche proprietà che le rendono adatte all’ambiente in cui si trovano, non solo riguardo alle condizioni climatiche e pedologiche ma anche quelle economiche e socioculturali, evitando non solo la perdita di biodiversità ma anche quella dei saperi contadini e la cultura rurale che ha generato quella diversità.
La “selezione partecipativa” migliora l’adattamento della pianta ma, prima di tutto, riconosce ai produttori e alle comunità locali un ruolo importante nella conservazione dell’agrobiodiversità, che non è più esclusivamente in mano alle banche del germoplasma. L’importanza della conservazione in situ, quindi in azienda, del materiale genetico, dimostra ancora di più che in aree montane non ha senso prendere come modello l’agricoltura industriale e intensiva ma, piuttosto, quella dell’azienda di piccole dimensioni, con basso o nessuno impatto ambientale, che valorizza il benessere, il rispetto per le risorse naturali e la solidarietà. Si tratta di un’agricoltura contadina basata sull’autosostentamento e orientata alla vendita diretta. Essa mantiene popolate zone rurali che sarebbero altrimenti abbandonate, presidia e salvaguardia i territori, conserva la ricchezza naturale dei paesaggi, la biodiversità delle piante e degli animali e mantiene vivi antichi saperi, tecniche e produzioni locali. Tutto questo ha poi ricadute sul turismo, sulla manutenzione degli equilibri idrogeologici e sul mantenimento della fertilità del suolo.
In conclusione, valorizzando le colture locali e lasciando la loro gestione in mano alla comunità, si riconoscerebbe in modo ufficiale all’agricoltura, in particolare a quella di montagna, il ruolo multifunzionale che da sempre ha rivestito e quindi la funzione di valorizzazione e tutela del territorio rurale e non solo. Questo permette anche di valorizzare le attività turistiche e arricchire i luoghi montani di nuove opportunità e potenzialità.
Paola Gioia

Testo ricavato dal lavoro di ricerca realizzato nell’ambito del Piano Strategico Comunale di Elva, in Valle Maira (Cn), durante il tirocinio presso Seacoop Stp del Master in “Sostenibilità socio ambientale delle reti agroalimentari” dell’Università di Torino.