Se c’è un tema che scalda gli animi di chi si occupa di politiche territoriali in montagna è quello del riassetto amministrativo dei comuni e delle istituzioni sovra-comunali delle terre alte. Giornali locali, forum online e blog traboccano di scambi di battute, a volte decisamente accesi, tra amministratori, esperti e comuni cittadini riguardo ai pregi o ai difetti delle (effettivamente molte e non sempre chiare) leggi e proposte di riforma riguardo al futuro degli enti che dovrebbero rappresentare i cittadini delle vallate. Così l’ultimo progetto di riforma delle comunità montane in Piemonte viene accusato da alcuni di cancellare le identità e le autonomie locali e di non ridurre le poltrone inutili, mentre i suoi sostenitori rinfacciano agli oppositori una visione arcaica e campanilistica della montagna.
Il dibattito è quanto mai acceso e talvolta sopra le righe, e il susseguirsi di disegni di legge, decreti e riforme più o meno abbozzate non aiuta certo a fare chiarezza su quali potranno essere i destini dell’assetto amministrativo della montagna italiana. Quello che pare sicuro – almeno in Piemonte – è che i piccoli comuni saranno costretti ad associarsi per la gestione dei servizi, attraverso unioni di comuni obbligatorie con almeno 3000 abitanti, che in montagna si chiameranno “unioni montane”, le quali non solo sostituiranno le defunte comunità montane, ma di fatto svolgeranno la maggior parte delle funzioni prima in capo ai comuni.
Razionalizzazione dovuta a logiche economie di scala o annullamento dell’autonomia municipale, del presidio territoriale e dell’identità locale? Al centro del dibattito ci sono ancora una volta i piccoli comuni, facili prede della furia razionalizzatrice di moda in Italia in questi tempi di crisi, accusati ingiustamente di inesistenti sprechi economici e, forse più giustamente, di dover assolutamente ripensare il proprio ruolo nell’architettura istituzionale italiana.

Il tema è troppo complesso e forse troppo caldo per prendere posizione in maniera chiara su cosa sia giusto e cosa no. Il dibattito però può essere arricchito aggiungendo un’informazione quasi del tutto assente finora: mentre da alcune valli risuonavano gli echi di chi prefigurava scenari apocalittici, con una montagna privata di rappresentanza, di dignità territoriale e di democrazia, in molte altre parti d’Italia decine di sindaci hanno più pragmaticamente ritenuto utile cogliere l’occasione del periodo favorevole alle riforme per promuovere la fusione del proprio comune con altri limitrofi, dando vita a nuovi soggetti istituzionali dal maggiore peso politico.
Dal 1 gennaio 2014 ad oggi sono stati istituiti ben 24 nuovi comuni, con una popolazione che varia dagli 820 abitanti di Fabbriche di Vergemoli, in Garfagnana, ai quasi 30.000 di Valsamoggia, sui colli bolognesi, i quali si sostituiscono a 57 precedenti municipalità. Le regioni colpite da questa ondata di fusioni sono Lombardia (nove), Toscana (sette), Emilia-Romagna (quattro), Marche (due), Friuli-Venezia Giulia e Veneto (una fusione).
Data la prevalenza di piccoli comuni, è quasi superfluo sottolineare come la maggior parte di questi nuovi campanili sia nata in territori collinari o montani, dall’Appennino marchigiano fino alle Alpi bellunesi.
La scelta di preferire la fusione alla meno drastica unione di comuni è dovuta a diversi fattori: le ovvie economie di scala, la volontà di non aggiungere un ulteriore livello di governo del territorio – per quanto non elettivo – alla già intricata architettura istituzionale dei territori montani e, soprattutto, la consapevolezza di dare vita a soggetti politici più forti.
«Quando andavo in Regione o in Provincia a rappresentare un comune di 400 abitanti, mi accorgevo che spesso i funzionari non ci avevano mai sentiti nominare e dovevano controllare sulla carta dove ci trovavamo, mentre adesso mi auguro che con oltre 4000 residenti complessivi la situazione sia diversa» spiega Giovanni Bottani, ultimo sindaco del comune di Valsecca, in fondo alla valle Imagna (Bergamo), oggi confluito con Sant’Omobono Imagna nella nuova municipalità di Sant’Omobono Terme.
Anche i rischi di perdita di identità e di presidio territoriale non sembrano avere turbato più di tanto gli abitanti di Valsecca, il 75% dei quali si è espresso favorevolmente in occasione del referendum indetto per decidere riguardo alla fusione. «All’inizio alcuni erano un po’ scettici sul progetto, ma quando abbiamo spiegato che il presidio territoriale sarebbe rimasto, grazie al mantenimento di entrambe le case municipali, e che la comunità avrebbe continuato ad essere rappresentata, con l’istituzione di un prosindaco, quasi tutti si sono convinti che la fusione sarebbe stata la soluzione migliore» conclude Bottani.
In Piemonte la possibilità di fondere i comuni più piccoli è entrata solo marginalmente nel dibattito. L’unico progetto realmente avviato è quello relativo all’istituzione di un unico comune della valle Bronda, fondendo Pagno, Castellar e Brondello. I primi due comuni hanno già deliberato in merito, proponendo l’organizzazione di referendum, ritenendo che la fusione avrebbe portato il vantaggio di abbattere i costi e semplificare le istituzioni, in un contesto territoriale nel quale quasi tutti i servizi vengono di fatto già erogati congiuntamente. Più scettica è invece la sindaca uscente di Brondello, Dora Perotti, che ha deciso di rimandare la decisione alla prossima amministrazione, mettendo in evidenza l’inutilità di creare un nuovo comune di popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, che sarebbe comunque costretto dalla legge ad associarsi con altri per l’erogazione dei servizi, e la minima incidenza in termini di riduzione dei costi: «Quello che si taglierebbe è il volontariato. Attualmente né io, né i miei assessori, né i consiglieri comunali percepiamo alcuno stipendio. Si eliminerebbero semplicemente persone che si danno da fare a titolo gratuito per la propria comunità».
Giacomo Pettenati

Info: www.comune.santomobonoterme.bg.it