Il 29 settembre scadrà la proroga concessa dalla Commissione Europea all’Italia per rispondere alla lettera di avvio di una procedura d’infrazione in merito al divieto di utilizzo di latte concentrato e in polvere nelle produzioni lattiero-casearie. Infatti nel nostro Paese ciò è vietato dalla legge n. 138 dell’11 aprile del 1974. Come non è difficile immaginarsi, il fatto ha suscitato clamore e polemiche dalle mille sfaccettature che non sempre hanno aiutato a fare chiarezza sull’argomento. Vediamo se almeno in minima parte è possibile farlo.

Prima ancora della questione tecnica del latte in polvere, per molti la prima reazione di fastidio è suscitata dall’idea che l’Europa “venga a dirci anche come fare il formaggio”. Ovviamente un bel cavallo da cavalcare per tutti gli euro scettici. Ma siamo proprio sicuri che l’interesse a cancellare quella norma venga dal di fuori dei nostri confini? Raccogliendo alcuni indizi qualche dubbio viene. Ad esempio nel 2013 l’europarlamentare Oreste Rossi (all’epoca nel Gruppo ELD essendo stato eletto con la Lega Nord) presenta un’interrogazione in cui solleva il dubbio sulla legittimità della legge 138 del ’74 e la Commissione Europea risponde che farà le opportune verifiche. Se poi aggiungiamo che, come dice Slow Food nel suo appello a firmare la petizione, sembrerebbe che la richiesta di modifica della legge incriminata da parte della Commissione Europea sia stata “sollecitata da una parte dell’industria lattiero casearia italiana“, i dubbi che le pressioni (al di là che sia un bene o un male) vengano solo dall’esterno diventano consistenti.
Veniamo ora al merito della questione: cosa potrebbe comportare la possibilità di utilizzare il latte in polvere nella produzione lattiero casearia? Abbiamo cercato di raccogliere pareri anche differenti di esperti o comunque conoscitori del settore, come ad esempio quello di Piero Sardo (presidente della Fondazione per la Biodiversità di Slow Food) o quello di Ivano De Noni (professore associato confermato di scienze e tecnologie alimentari presso l’Università degli Studi di Milano e direttore tecnico della rivista “Il latte”). Il punto di vista di Sardo è chiaramente espresso nell’articolo “È il latte la ragion d’essere del formaggio”, mentre quello di De Noni nel suo editoriale “La normativa in-polverata“. In mezzo ci sono tutte le voci dei tanti piccoli e medio-piccoli produttori di caseari che sono quanto meno preoccupati.
Quello che emerge è che chi sostiene l’utilità dell’utilizzo del latte in polvere privilegia il punto di vista industriale in cui una maggiore efficienza porta sicuramente vantaggi logistici, economici e di competitività. Chi invece difende la legge 138 vede nel latte in polvere nel formaggio un pericolo per la qualità di un prodotto che per l’Italia non è un semplice alimento come un altro, ma è parte della cultura ed espressione delle tante diversità che il nostro territorio sa e ancora può esprimere. È importante sottolineare che il latte in polvere non ha alcuna controindicazione dal punto di vista strettamente alimentare, in quanto non comporta alcun rischio, e anzi viene già utilizzato in diversi altri prodotti. Però è vero anche che, se la differenza qualitativa emerge già tra un formaggio fatto con latte di animali che mangiano erba di pascolo e uno fatto con latte di animali che non mangiano erba, è difficile immaginare che un formaggio prodotto con latte in polvere sia la stessa cosa. Sicuramente nessun produttore sarà obbligato a utilizzare latte in polvere, le produzioni Dop e Igp non sarebbero a rischio (finché non cambieranno i disciplinari) e le tante altre produzioni casearie particolari del nostro territorio potrebbero teoricamente sopravvivere in maniera parallela e indipendente dalla produzione industriale. Forse. Forse è però anche vero che, considerando la necessità di sostenere i vari allevatori che ancora utilizzano i pascoli e puntano sulla qualità più che sulla quantità, una normativa che non li tuteli potrebbe per molti risultare fatale. Aspetto da non sottovalutare è anche il contributo che essi danno, con l’utilizzo dei pascoli, al mantenimento del territorio e del nostro ancor bel paesaggio, cosa che difficilmente può fare il trasporto del latte in polvere, magari proveniente dall’estero. Nel calcolo di vantaggi e svantaggi economici andrebbe considerato.
Quello che ne esce è un quadro ancora un po’ confuso in cui ognuno cerca di portare acqua al proprio mulino, ma soprattutto si evidenzia il rischio di una normativa non chiara e lacunosa che, come tutti sanno, è la tipica situazione in cui chi ci rimette sono i più deboli: i piccoli produttori onesti, ma anche i consumatori che rimangono senza le informazioni necessarie e gli strumenti per poter scegliere.
La sensazione è che al di là di quello che succederà il 29 settembre il dibattito non si fermerà e c’è da augurarsi che non sia uno sterile muro contro muro, ma possa essere un dialogo costruttivo nell’interesse di tutti. Proprio tutti però.
Luca Serenthà

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