Contro la “manovra” governativa che con l’articolo 16 in pratica prevedeva, tra l’altro, la soppressione dei comuni inferiori ai mille abitanti (in Piemonte su 1206 ben 597, di cui la metà montani) gli amministratori locali piemontesi sono scesi in piazza a Torino il 22 agosto scorso. Malgrado il periodo di vacanze, la mobilitazione di protesta, organizzata congiuntamente da Anci, Uncem, Associazione dei piccoli comuni e Lega delle autonomie, una volta tanto in modo “bipartisan”, ha registrato un’imponente partecipazione soprattutto dei rappresentanti dei piccoli centri montani, molti dei quali avevano esposto sui loro municipi la bandiera a mezz’asta  in segno di lutto.

Qualcosa si è ottenuto, perché vi é stata qualche modifica al testo originario, ma qui ci preme ritornare sulle ragioni della forte protesta (estesasi nei giorni seguenti a Roma a livello nazionale), illustrate a Torino al Presidente della Regione e al Prefetto, e che sono facilmente comprensibili: il livello comunale, soprattutto nei piccoli centri,  è quello in cui maggiormente i cittadini si riconoscono e rappresenta la prima cellula, quella fondamentale, nell’ organizzazione democratica  di uno stato. A sopprimere i comuni ci aveva già provato Mussolini sul finire degli Anni Venti accorpandoli e sostituendo i sindaci con i podestà di nomina governativa. Non per nulla – appena caduto il fascismo – la maggior parte dei comuni riprese la propria autonomia. Ad esempio nel Canavese, era stato istituito il mega-Comune di Cuorgné, formato da una decina di ex Comuni (come Alpette, San Colombano Belmonte, Pratiglione, Prascorsano, Salto, Priacco, Borgiallo, Chiesanuova e altri) tutti immediatamente ricostituitisi nel dopo guerra, ad eccezione dei piccolissimi centri di Salto e Priacco, rimasti anche oggi frazioni di Cuorgné.
Sopprimere i comuni, nelle terre alte, dove tutto è più difficile per le caratteristiche geografiche, climatiche e socio-economiche, significa – soprattutto in periodo di tagli ai principali servizi – indebolire ulteriormente la voce della montagna, togliere alla stessa identità e rappresentanza politico-amministrativa.
Quello che poi indispone è prendere atto della superficialità con cui vengono trattati a livello romano e mediatico i grossi problemi, per cui dapprima le comunità montane diventano simbolo dello spreco e si tenta di sopprimerle (tentativo quasi riuscito…), poi  ci si scaglia contro i piccoli comuni per “abbattere i costi della politica”. Ma vogliamo scherzare? sindaci, assessori e consiglieri comunali nei piccoli centri, e soprattutto in montagna, svolgono un’azione che ha tutti gli aspetti del volontariato! E molto spesso rinunciano anche al misero gettone, o lo girano all’asilo o alla pro loco.
Personalmente ritengo poi che sia più difficile fare il sindaco in un piccolo centro, dove – con tante responsabilità, scarsi mezzi e pochissimi collaboratori tecnico-amministrativi – il sindaco diventa il fulcro di tutta l’attività locale, che non nella grande città, dove l’apparato di supporto è ben diverso. Tagliando i comuni si getta solo fumo negli occhi: fa effetto dire che si tagliano 54 mila poltrone, ma in realtà il “risparmio” è pari a quello ottenibile con qualche parlamentare in meno! I costi della politica vanno ricercati altrove, dalle province in su, cioè dove a livello nazionale qualche migliaio di presidenti, assessori e consiglieri hanno gettoni, stipendi e rimborsi ben maggiori, nonché diritto ad auto, portaborse, collaboratori e “staffisti”. Abbiamo appreso che in una regione, che non diciamo per carità di patria, anche un gruppo politico costituito da un solo consigliere ha diritto a quattrini, uffici e collaboratori.
Viene spontanea un’osservazione: in Italia ci sono 8.092 comuni, dei quali oltre la metà montani; in Francia, che più o meno ha la stessa popolazione su quasi il doppio della superficie, i comuni sono oltre 36.682; sono 12.104 in Germania, che non ha quasi montagne,  e 8.116 in Spagna, che ha 20 milioni di abitanti in meno rispetto a noi. Se si vuol fare un raffronto con la Svizzera allora bisogna dire che questa, con una popolazione inferiore a quella della Lombardia (due milioni di abitanti in meno) ha 2.516 comuni contro i 1.500 lombardi. Allora si può dire che non è il caso di scaldarsi tanto, perché in proporzione noi abbiamo meno comuni di Francia, Germania, Spagna e Svizzera. Oppure prendiamo atto che questi Paesi sono più spreconi di noi?
Bisogna anche intendersi sul termine “comune”, perché non ha senso usare lo stesso termine per Torino, Pinerolo  e Moncenisio (metropoli, grande città e piccolissimo centro) o, peggio, trattarli nella stessa maniera; così come non bisogna confondere l’autonomia e l’identità comunale con la gestione dei servizi: qui sì che si può razionalizzare, rendendo per esempio obbligatoria la gestione associata degli stessi.
Insomma: si vuole fare una riforma dell’organizzazione dello Stato con qualche ritocco alla Costituzione? Si vuole finalmente stabilire, una volta per tutte, chi fa cosa, eliminando doppioni e sprechi? Benissimo, sono d’accordo anche le Associazioni delle autonomie locali, ma facciamolo nelle sedi parlamentari adatte e con i dovuti confronti in base alla Carta delle autonomie e non negli schiamazzanti teatrini televisivi, che di questi tempi celebrano anche processi! Possibile che non sia mai possibile affrontare i problemi con i dovuti approfondimenti, anziché sull’onda di emotive suggestioni del momento?
Quello che si teme è che questo attacco alle istituzioni democratiche più deboli dell’organizzazione locale dello Stato sottintenda invece, con la scusa dell’abbattimento dei costi della politica (cosa che coinvolge anche la possibile eliminazione delle province) l’instaurazione di un neo-centralismo statale dopo la grande abbuffata di decentramento amministrativo attuato, non sempre benissimo, nel recente passato (Stato che delega alle regioni, queste a loro volta a province, comuni e comunità montane).
Infine: qualcuno ha detto che eliminando un tot di piccoli Comuni si diminuisce il rischio di localismi e personalismi che alcuni scandali hanno messo in evidenza. Perché, nei grossi centri non succede?
Franco Bertoglio