Nel panorama europeo, l’Italia è uno dei paesi che spicca maggiormente per la ricchezza nella biodiversità e per il patrimonio naturalistico: infatti presenta circa il 50% della flora europea, su una superficie che corrisponde a circa 1/30 del continente europeo.
Stando a questi dati, risulta incredibile pensare che, in un panorama economico dove il consumo di piante officinali sta vivendo un periodo di incremento in svariati settori d’impiego (farmaceutico, liquoristico, cosmetico, alimentare) paradossalmente, in Italia, che dovrebbe essere uno dei paesi piloti in questo senso, si riesce a produrre solo il 30% del fabbisogno nazionale, mentre il restante 70% viene importato.
Ci sarebbero delle buone opportunità di incrementare sia la coltivazione di specie officinali sia la raccolta di erbe spontanee. Soprattutto in aree considerate “marginali” e rurali come quelle montane in cui, più che in altre zone, sta aumentando il fenomeno di rimboschimento di terreni un tempo coltivati o pascolati, incrementando così le aree soggette al degrado e all’abbandono.
Si potrebbe quindi cercare, attraverso le conoscenze popolari e i saperi tradizionali, di ripristinare, almeno in parte, questo concetto in un’ottica di “sviluppo sostenibile”. Ovvero uno sviluppo basato sul rispetto e la valorizzazione del luogo, della cultura e delle risorse del territorio preso in esame. In quest’ottica, infatti, il concetto di “tradizione” cambia valenza. Non è solo più un dato di fatto culturale, un qualcosa di insito nella comunità di provenienza: può anche essere visto come un uso, causato da bisogni materiali ed immateriali, che si costruisce e si modifica nel tempo, che cambia secondo il periodo storico e secondo le necessità. Per questo motivo non bisogna pensare alla tradizione come a qualcosa che appartiene unicamente al passato, ma anche a qualcosa che può influenzare concretamente il presente. Si sta osservando un rinnovato interesse, soprattutto da parte dei giovani, al lavoro dei campi, dove la classica coltivazione dei cereali sempre più spesso viene abbinata a quella delle piante officinali.
In quest’ottica, nell’indagine condotta nelle valli Chisone e Germanasca (To) durante il 2013, è parso interessante porre l’attenzione su un certo numero di specie vegetali che, oltre che essere protagoniste di un vasto numero di impieghi da parte della popolazione locale, risultano anche di facile reperibilità per la loro abbondante distribuzione o su altre che invece avrebbero interessanti riscontri nella coltivazione.
Affinché ci siano le condizioni ottimali per poter avviare tali coltivazioni occorre innanzitutto valutare quali siano le specie che meglio si adattano alla propria realtà. Nel nostro caso, lo sfruttamento di vecchi terrazzamenti e aree un tempo coltivate, potrebbe costituire un vantaggio per promuovere la coltivazione di quelle specie il cui habitat naturale è quello alpino, come l’arnica, il genepy, l’assenzio, il timo serpillo e la viola solo per citarne alcune. Per quanto riguarda gli aspetti critici nella sperimentazione della coltivazione di piante officinali ad alta quota, soprattutto nel caso di piccoli produttori, risulta innanzitutto il prezzo della materia prima in un mercato di scala nazionale, sempre molto basso, che consente a malapena di coprire i costi di produzione sostenuti dal coltivatore. Inoltre le coltivazioni con una bassa produzione rischiano di non trovare acquirenti, essendo che la maggior parte degli esercizi commerciali si rifornisce da grossisti.
Nonostante questi aspetti poco incentivanti, rimangono molti i punti a favore per investire nella coltivazione di piante officinali. Innanzitutto perché è un mercato in continua espansione, con una domanda sempre in crescita, considerando il rinnovato interesse dei consumatori per i prodotti “naturali”; la coltivazione di officinali, inoltre, ben si adatta ai terreni marginali, con risultati economici soddisfacenti e la possibilità della vendita diretta, anche in piccoli spacci di prodotti tipici o nelle erboristerie di paese, rendendolo un prodotto a km 0. Altra nota positiva risulterebbe dalla possibilità di diffusione e promulgazione della conoscenza e della cultura delle piante officinali, soprattutto se poste in relazione ai saperi tradizionali della zona su cui si opera, oltre che una valorizzazione del territorio e del prodotto italiano e locale.
In tal senso, qualcosa si sta già muovendo nelle valli indagate, grazie alla presenza di alcuni produttori locali che stanno investendo nel territorio: ricordiamo l’azienda Bernard, sita a Pomaretto all’imbocco della Val Germanasca, che dal 1902 è dedita alla produzione di liquori tipici, preparati a partire da infusi di piante locali come il genepy, il timo serpillo, la genzianella etc. Altri coltivatori dell’Alta Val Chisone si stanno interessando alla coltivazione di alcune specie tipiche della zona, come il genepy, destinato alla vendita diretta della materia prima secca (soprattutto in Francia e Valle d’Aosta). Altre coltivazioni in fase sperimentale riguardano la regina delle Alpi (Eryngium alpinum), pianta endemica ma in via di estinzione, e la stella alpina (Leontopodium alpinum), entrambe destinate maggiormente al settore liquoristico.
Giada Bellia