L’intero arco alpino si caratterizza per la ricchezza linguistica e culturale dei diversi gruppi che lo popolano. La presenza di gruppi di minoranza linguistica consente di percepire le Alpi come luogo della differenza oltre che come territorio dai caratteri ricorrenti. Nell’ultimo ventennio, anche grazie alla Convenzione delle Alpi, la regione alpina ha visto riconosciuta la sua centralità nel panorama europeo, anche se a metà degli anni Novanta l’antropologo Giovanni Kezich parlava ancora di Alpi come «periferia impervia della società europea» e «soffitta d’Europa».

Lo stesso Kezich metteva in luce come, nello stesso periodo, gli antropologi alpini avessero iniziato a interrogarsi sulla diversità nell’unità: «Non è una presunta “cultura alpina” come dato unitario ad interessare in questa fase gli antropologi, ma è semmai proprio l’opposto, ovvero la capacità di un medesimo ambiente, in determinate circostanze storiche, di dare albergo a culture diverse – a lingue, tradizioni giuridiche, talora religioni diverse – che ce ne restituiscono immagini antropizzate anche ampiamente diversificate». Per la teoria della complessità, però, il tutto non è la somma delle parti: come avverte Pier Paolo Viazzo, la società alpina non è la semplice sommatoria di comunità di villaggio, sia pure diverse tra loro. Per analizzare questa realtà complessa, si è passati dalla ricerca di comunità, che in qualche modo riproponeva l’idea di un modello sociale chiuso e autoregolato, all’analisi del network, della rete di contatti, dei reticoli sociali intessuti, anche a lungo raggio, dagli abitanti della montagna, ma anche ad aspetti problematici legati a temi dell’antropologia politica e della contemporaneità, dalla rivendicazione identitaria, al localismo, all’etnicizzazione. Oggi l’antropologia si interessa della montagna così come di qualsiasi luogo in cui è necessario interpretare il cambiamento e la trasformazione alla luce delle specificità culturali e degli elementi storici. Ciò che non è stato ancora sufficientemente esplorato è la grande capacità di ricezione e di elaborazione dell’innovazione da parte delle comunità alpine. Questo anche a causa delle rappresentazioni, dure a morire, di una montagna etichettata come “museo ergologico”, isolato e immobile dal punto di vista economico, sociale e culturale. Seppure siano passati molti anni dalla pubblicazione di Comunità alpine di Pier Paolo Viazzo (1989), che attraverso il suo paradigma revisionista metteva in discussione l’immagine delle società alpine come isolate, arretrate e analfabete, l’immagine che viene venduta ai turisti è ancora la stessa. Molti musei etnografici risultano ancora fortemente influenzati da quegli stessi stereotipi a cui dovrebbero, data la loro vocazione educativa, contrapporsi. Se, come scrive l’antropologo francese Marc Augé: «L’uniformità è lo scotto che deve pagare la diversità quando è conosciuta superficialmente», l’unico rimedio appare quello della conoscenza approfondita, che tenga conto contemporaneamente dei livelli micro e macro in cui le comunità alpine sono inserite.
Valentina Porcellana